mercoledì 8 luglio 2015

In difesa dell'euro

Sento dire in giro, sempre più spesso negli ultimi tempi, che i paesi europei dovrebbero disfarsi dell’euro e tornare al paradiso perduto delle monete nazionali.
Sento dire che se ogni paese potesse far fluttuare il valore della propria valuta a seconda delle circostanze, crisi come quella greca sarebbero più facilmente risolvibili. In base a questa tesi, se i greci avessero avuto ancora la dracma non avrebbero dovuto fare altro che svalutarla, ripagando i propri creditori con carta straccia. Molti paesi l’hanno fatto, in passato. Noi italiani eravamo degli esperti ma perfino i tedeschi, quando è convenuto loro, sono stati ben lieti di ricorrere a questo trucchetto.
La cura, è chiaro, ha le sue controindicazioni. Una è l’inflazione, che ovviamente schizzerà verso l’alto. L’altra è l’aumento dei prezzi delle materie prime, che normalmente si acquistano in dollari: se svaluto la mia moneta rispetto a quella americana, per ipotesi del 50 per cento, il gas, il petrolio e così via mi costeranno il 50% in più a valori reali. L’inflazione poi si mangerà gli stipendi dei lavoratori dipendenti, perché i salari reali non riescono mai a tenere il passo del tasso d’inflazione.
Sento dire altresì che il potere d’acquisto degli italiani, dei greci, degli spagnoli si sia ridotto dopo l’introduzione dell’euro. Può darsi. A me però sembra un errore che in logica si definisce “post hoc ergo propter hoc”: dopo questo dunque a causa di questo. Se io incrocio mastro Filippo per strada e subito dopo inciampo e casco per terra, vuol dire che la colpa è di mastro Filippo. Che da quel momento diventa uno iettatore.
Io non credo sia colpa dell’euro. Il caso vuole che mi sia ritrovato a vivere in Gran Bretagna. Un paese che, come tutti forse saprete, l’euro non ce l’ha. Ebbene, il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti è crollato pure da queste parti. Malgrado la sterlina e l’autonomia monetaria.
Qui li chiamano working poors. Lavoratori poveri: gente con un lavoro e uno stipendio e che tuttavia non riesce a pagarsi l’affitto ed è costretta, per mangiare, a mettersi in coda davanti alle mense dei poveri. Parliamo di centinaia di migliaia di persone. Più tutti gli altri che, a milioni, sopravviviamo a stento. Sarà colpa dell’euro pure in Gran Bretagna?
Oppure sarà colpa di qualcos’altro?
Ho un lungo elenco di concause, se volete. Di cose che sono accadute nei paesi con l’euro e in quelli senza.
La riduzione del potere interventista dello Stato, per esempio. Oppure l’indebolimento delle forze sindacali, che ha dato mano libera ai datori di lavoro. Le privatizzazioni, che per due soldi hanno regalato ai privati i vecchi monopoli pubblici, peggiorando i servizi e aumentandone i costi. La deregolamentazione della finanza, che ha consentito agli speculatori di mettere il mondo in ginocchio e di rimediare al loro delirio d’onnipotenza con i soldi pubblici. Il discredito montato ad arte contro la scuola e la sanità pubbliche, e l’idea malsana che perfino la scuola e la sanità debbano funzionare in base alla logica delirante del libero mercato. La mano libera concessa agli olandesi, agli inglesi, ai lussemburghesi di rubare le entrate tributarie degli altri paesi europei e di dare poi perfino lezioni di moralità agli spagnoli, agli italiani o ai greci: il bue che dà del cornuto all’asino. Devo continuare?
Non è colpa di mastro Filippo se siete caduti e non sono dipese dall’euro le scelte politiche che hanno impoverito i cittadini europei (compresi quelli che l'euro non ce l'hanno).
A me non piace vivere con la testa rivolta all’indietro. Ciò che voglio è una nuova Europa, non una vecchia moneta.

martedì 7 luglio 2015

Al contadino non far sapere quanto è buona la feta con le pere

Grande è l’imbarazzo dei leader politici europei dopo il referendum greco. Giorni difficili li attendono, scelte da far tremare le vene ai polsi.
Devono infatti decidere se suicidarsi subito o se morire di morte lenta. Mettetevi nei loro panni: non è una decisione che si può prendere su due piedi.
Quello che davvero vorrebbero, i vari Merkel, Renzi, Juncker, è che a morire siano i greci. Vorrebbero tagliare loro i viveri, far chiudere le banche, ridurli sul lastrico. Così imparano a non stare al gioco.
Sanno però di non poter tirare troppo la corda. La geopolitica ha le sue esigenze. Dovessero sul serio mettere Atene alla porta, rischierebbero di consegnare la Grecia alla Russia. Putin s’è già ripreso la Crimea, ma stavolta sarebbe molto peggio: la Grecia è un paese della NATO.
Più probabilmente continueranno per un po’ col tira e molla dei vertici, dei finti compromessi, delle interminabili discussioni ma senza staccare del tutto la spina, aspettando (e sperando) che nel frattempo il governo Tsipras finisca per logorarsi da solo, travolto dalla crisi di liquidità che il suo paese già si trova a fronteggiare.
Del resto non hanno alternative. Qualsiasi passo in avanti nella direzione di un vero compromesso, qualunque aiuto serio l’Unione europea possa dare ai greci, verrebbe interpretato dai propri rispettivi elettori come un segno di debolezza.
Peggio ancora (dal punto di vista dei leader in carica, naturalmente). Sarebbe un segnale che è meglio non lanciare ai propri cittadini, perché pericoloso e imbarazzante insieme: mai far credere agli elettori che si può fare. Che c’è una via d’uscita.
Vorrebbe dire togliere il primo chiodo dalla bara dell’austerità economica in cui l’Europa s’è andata a cacciare. Significherebbe tirare acqua al mulino dei vari Podemos, Cinque stelle o di qualsiasi altro partito riuscirà a mettere radici nei paesi maggiormente colpiti dalle misure d’austerità.
Eccolo, il suicidio di cui parlavo all’inizio.
L’alternativa è la morte lenta. Perché moriranno comunque, se proseguono su questa strada.
La via d’uscita è solo una: dire basta all’austerità. In Grecia, in Italia, in Spagna. In Europa. Se non lo fanno i leader oggi al potere ci penseranno, più prima che poi, i loro elettori.

Angela Merkel. La donna che creò Tsipras

Leader di sinistra cercasi. Disperatamente. E non avendone sotto mano alcuno nei propri paesi, i cittadini di mezza Europa adesso guardano con speranza verso la Grecia.
Una cosa è certa. La sinistra cosiddetta ufficiale, erede dei partiti di massa del secondo dopoguerra, ha fallito.
Non ha ricette di politica economica che siano davvero alternative a quelle della destra. Al massimo, piccoli accorgimenti per rendere meno dura la vita ai propri elettori. Nulla che possa davvero scalfire l’egemonia, economica e insieme culturale, degli zombie parlanti della finanza, quelli che morirono nel 2007 ma ancora predicano dal pulpito.
Questa sinistra senza autonomia intellettuale si è di fatto consegnata all’indifferenza dell’elettorato.
In tutti i maggiori paesi europei, le sue percentuali di voto oscillano ormai da tempo tra il 20 e il 30 per cento. Anche quando vince, come solo a Hollande in Francia è riuscito di recente, lo fa giusto in virtù di una legge elettorale a doppio turno che ha consentito ai socialisti di nascondere sotto al tappeto il modesto risultato del primo scrutinio.
In questo assoluto deserto politico e intellettuale, uno Tsipras finisce con l’assurgere alle dimensioni di uno statista. I greci hanno fatto tutto quello che gli zombie parlanti chiedevano loro di fare. Hanno tagliato stipendi e pensioni, hanno ridotto del 25 per cento il prodotto interno lordo per pagare i debiti, hanno costretto alla fame centinaia di migliaia di cittadini per raggiungere un avanzo primario del 5%. Si sono comportati in maniera esemplare, ma non ha funzionato.
Pure Tsipras, attenzione, è diventato primo ministro con appena il 36 per cento dei voti, in virtù della legge elettorale greca e grazie all’alleanza con un piccolo partito della destra nazionalista.
Syriza è un partito nato nel 2001, alla vigilia della manifestazione contro il vertice del G8 di Genova, quello della caserma Bolzaneto (la partecipazione a quella manifestazione di protesta fu uno dei principali punti all’ordine del giorno). Nacque dalla fusione tra una miriade di partitini di sinistra: marxisti, trozkisti, ecologisti e così via. Una cosa di mezzo tra SEL e Rifondazione comunista. Anche dal punto di vista dei consensi elettorali. La prima volta che partecipò alle elezioni prese appena il 4%.
Poi vennero la crisi economica e la fame. La sinistra ufficiale greca, quella dei socialisti del PASOK, si trovò a essere al governo. La Grecia aveva fatto ricorso alla Goldman Sachs per truccare i bilanci pubblici, ma la compiacenza degli altri paesi europei che fino a quel momento avevano retto il gioco terminò di colpo quando i governi francese e tedesco si trovarono costretti a salvare le proprie banche dalla montagna di crediti farlocchi che avevano concesso alla Grecia (a proposito: benvenuto nel club, Massimo D’Alema. In ritardo come sempre, ma noto comunque che ti fa bene avere motivi di rancore per il tuo nuovo leader).
L’allora primo ministro greco, Papandreu figlio, di fronte alla prospettiva di dovere licenziare i dipendenti pubblici e di far pagare le tasse a Onassis, nel 2011 osò pensare a un referendum. La Merkel, Sarkozy e ovviamente i mercati internazionali lo fecero fuori (notate bene: Barack Obama, che oggi implora i leader europei di venire incontro alle richieste dei greci, si dichiarò all’epoca contrario al referendum. Se oggi sembra un sostenitore di Tsipras non è certo per simpatie politiche. E’ solo terrorizzato che una Grecia fuori dall’euro possa finire nell’area d’influenza di Putin. Pure lui, da buon leader di sinistra, le cose le capisce in ritardo).
Ad ogni modo, Papandreu figlio venne sfiduciato e si dovette tornare al voto. Vinse la destra, ma senza maggioranza. Il nuovo governo non sopravvisse. Si rivotò e stavolta, uscendo praticamente dal nulla, vinse Syriza.
Il che, secondo me, dimostra due cose.
La prima è che i leader dei maggiori paesi europei hanno la lungimiranza delle talpe. Sono stati loro, in primo luogo la Merkel, a mettere Tsipras nel posto in cui si trova. La miopia della cancelliera tedesca è talmente evidente che ha ritentato con Tsipras lo stesso giochetto che gli era riuscito con Papandreu figlio. Volete sapere una cosa? Alla vigilia del referendum proposto da Papandreu erano stati fatti dei sondaggi. In base ai quali il 60% dei greci era contrario all’accordo capestro con l’Unione europea per il ripianamento dei debiti. Cosa vi ricorda questa percentuale?
La seconda circostanza che salta evidente agli occhi, è che una sinistra che si adegua a politiche economiche di destra, che dà un colpo al cerchio e uno alla botte, che sostiene di difendere lo stato sociale e intanto taglia tutto il tagliabile e perfino di più, è condannata alla sconfitta. Peggio: all’indifferenza dei propri elettori.
Perché quando la crisi morde la carne viva delle persone, i pochi cittadini che ancora si scomodano per andare a votare scelgono di solito chi sa cosa vuole. O che, quantomeno, dà l’impressione di saperlo.

venerdì 30 gennaio 2015

Hic sunt leones

Qualcosa sta cambiando. La direzione del cambiamento non è ancora chiara, ma non c’è dubbio che il monolite politico-ideologico degli ultimi 30, forse 40 anni stia cominciando a mostrare più di una crepa.
Da una parte la vittoria di Syriza in Grecia e l’avanzata di Podemos in Spagna (per adesso limitata ai sondaggi e alle dichiarazioni di voto); dall’altra l’Ukip in Gran Bretagna e il Fronte Nazionale di Le Pen “figlia” in Francia. Tra di loro Beppe Grillo, che un giorno inneggia a Tsipras e l’indomani a Nigel Farage.
Salta subito all’occhio la differenza tra le opposte direzioni del malcontento politico. I paesi più colpiti dalla crisi, la Grecia e la Spagna, hanno deciso (o sembrano sul punto di farlo, nel caso della Spagna) per un’improvvisa svolta a sinistra. Sintomatico è il fatto che in entrambi i paesi ciò accada pochi anni dopo che i cittadini avevano eletto governi di centrodestra per punire la sinistra cosiddetta ufficiale, rimasta col cerino in mano al momento dello scoppio della crisi finanziaria del 2007-08 (in Grecia governava il PASOK, in Spagna Zapatero. Ve lo ricordate Zapatero? Dio, sembra passato un secolo).
Nei paesi più ricchi, come la Francia e la Gran Bretagna, il malcontento sembra invece premiare la destra razzista e isolazionista.
In mezzo l’Italia, che per essere un poco Francia e un poco Spagna, ha finito per dare credito a un partito che è a sua volta “mezzo”: un poco di destra, un poco di sinistra. E che, badate bene, se lo avesse voluto e fosse stato capace di giocare bene le sue carte, oggi sarebbe al governo.
Non so a voi, ma a me sembra che ci sia un senso in questa simmetria.
*****
Sono anni che leggiamo di una classe media in crisi. La classe media non è un concetto astratto. Parliamo di quel ceto che i partiti politici dell’Occidente hanno corteggiato per decenni.
La classe media, la media borghesia, a seconda dei contesti e dei paesi, era composta da medici, avvocati, notai ma anche professori, piccoli imprenditori, perfino operai specializzati.
Cittadini che per reddito e spesso livello culturale potevano permettersi di essere liberi. Di votare liberamente, senza condizionamenti di sorta. Erano il centro dell’agone politico, la magna pars di quel parco elettorale che i cosiddetti partiti pigliatutto di una volta corteggiavano con particolare passione.
Non bisognava spaventarli con proposte politiche eccessivamente sbilanciate a destra o a sinistra, per non urtarne la sensibilità sociale o per non farli sentire minacciati dal basso.
I partiti politici degli ultimi 40 anni sono stati fatti a immagine e somiglianza della classe media di cui cercavano il consenso.
Si ha come la sensazione che questi partiti politici, inconsapevolmente o forse più banalmente perché accecati dalla corruzione, abbiano finito per erodere la base del proprio stesso consenso.
Hanno distrutto la classe media, costringendola a pagarsi gli esami ospedalieri, saccheggiando i loro redditi, rubando il futuro ai loro figli. E nel frattempo hanno continuato a mettere in scena, in una coazione a ripetere, la pantomima dei partiti di centro. Senza neppure rendersi conto che quel centro non esisteva più. Non esiste più.
Improvvisamente, il paesaggio sta cambiando. I sentieri che percorriamo non sono più quelli tracciati dalle mappe. Hic sunt leones.


lunedì 10 febbraio 2014

L'autostrada 6

Sono cresciuto tra le donne. Madri, nonne, sorelle, zie, cugine, mogli. Tra i parenti vicini di sesso maschile annovero uno zio, un paio di cugini e Pongo, il mio primo cane. Oggi vivo con una donna, le sue due figlie e un cane (Pea, ovviamente femmina). Non ho idea di cosa voglia dire, esattamente, essere un uomo.
Quando accompagnai a Pisa Nicole, la piccola di Franca, e Bruno Neri vide quanta fatica mi costasse il distacco, diede di me la migliore definizione. Disse: "Tu non sei un papà e non sei una mamma. Tu sei un mammo". Aveva ragione.
Non mi hanno mai fatto ridere le battute sessiste. Non ho mai creduto che le donne al volante siano un pericolo (le statistiche provano il contrario). Trovo patetico il celodurismo di riporto di tanti frustrati sessuali. Non mitizzo le donne (le conosco). Ma gli uomini... che patetici sbruffoni!
Quella che qui racconto è la storia di un uomo convinto che una donna non possa fare a meno di lui, e che per questo l'ammazza

Io vado a ottanta all’ora lungo l’autostrada sei
Sulla corsia di destra senza
allontanarmi troppo dal guardrail
Si dice chi va piano va lontano e poi lo sai
Che in tutta la mia vita contromano
io non sono andato mai

Mi ha detto anche tua madre
che conservi ancora una fotografia
Di me di te tuo padre mia sorella e Margherita sai tua zia
Insieme in pizzeria là sotto casa alla Bella Napolì
Con l’incerata rosa e roba fresca senza trucchi o intingolì

Quel bel vinello fresco fatto in casa che da solo ti va giù
Ma senza esagerare com’è giusto
un dito a testa o poco più
Avevi un bel sorriso e quel vestito verde che hai cucito tu
Con la spallina che non ne voleva mai sapere di star su

Difficile davvero immaginarti più felice di così
Col nostro ferramenta
e poi gli amici e lo scopone al giovedì
Davvero credi d’esser più serena adesso che vivi con lui
Ed hai dimenticato la tua casa tuo marito ed anche i tuoi

Non serve sorpassare la mia uscita
è sei chilometri da qui
Starò tranquillo in coda con prudenza
fino al bivio Mondovì
Poi prendo la statale e intanto penso alla faccia che farai
Tu che credevi che lì a casa sua non ti avrei trovata mai

Due colpi poi due baci poi due colpi infine l’ultimo per me
In tutto fanno sette
come gli anni che ho vissuto insieme a te
Dovrebbero spiegare a st’incosciente
che da destra non si può
Qui tutti pensan d’essere piloti poi s’ammazzano però

Io non ho mai capito a cosa serva
andare a più di cento all’or
Perché la gente corre scappa cerca
chissà che cos’altro ancor
Tra un poco amore mio torneremo insieme noi nell’aldilà
Ci pensi noi per sempre
se non questo che vuol dir felicità?

mercoledì 29 gennaio 2014

La Jeunesse Plaqué

Ero a Trapani per la processione dei Misteri, quando il Cristo ligneo si fermo davanti a un negozio d'abbigliamento. Il Cristo e il manichino dietro la vetrina rimasero per un po' a guardarsi...

Lunghe le gambe coi neri fusò
Vestita con cura a ricami dorati
Di là di quel vetro griffato Mirò
Guarda sfilare dei Cristi adorati

Portano uomini statue di legno
Lungo il viale di pini e boutique
Piangon le donne senza ritegno
Dietro la banda s’affila la claque

Una frangetta di plastica bionda
Pare sorpresa la finta mannequin
Della gran gente della baraonda
Di quei tamburi che fan a refrain

Frignan a cottimo nere le donne
Riavvoltolate in luttuosi foulard
Giunte le mani siccome madonne
Baciano il misero sporco clochard

Al rito con delega va l’assessore
Per uno straccione così démodé
Eppure l’invocano dicon signore
Magari facesse che dico un bidet

Pupazzo scolpito neppure di fino
Sorride beffarda maligna la miss
Sarò pure io come lui manichino
Però la miseria vedete che mise

Sarà come dicono re dei Cristiani
Sicuro però non è il figlio di Dior
Adesso io sì che ho capito i romani
Fu poco la croce per simile orror

Ad esser precisi non è per invidia
Del lumpen sfilare del proletariat
Colpa d’un paio di paria dell’India
A nuoto arrivati sul monte Ararat

Razzista non sono né i poveri odio
Adoro le chiese e dell’ostie lo stick
Il bianco talare dorato aspersorio
Il Papa per dire mi pare sia chic

Ma per la madonna davanti a moi
Con tutti quei posti perfetti per lor
Dovea trapassare dei poveri il roi
Val come dire il pezzente peggior

In serie mi fecero giù nella Cina
Per abiti in serie però blasonnée
Amara è la vita vissuta in vetrina
Eterna la faccia in eterno blasé

Potessi trovare una consolazione
Fra tutti quei giovani fuori dal suk
Di prefiche preti del capo barbone
E di tutto quel funebre lurido look

Sfilano i giovani senza guardare
Neppure di sbieco il feral défilé
Rapiti però dal mio bel personale
Lui certo perfetto per una soirée

Vivono fiacchi da veri bohémien
Ridon a scherno dei corvi devoti
Del loro fervore putente d’ancien
Dell’abracadabra di preci e di voti

Sprezzan la vita con far da dorée
Ma è finta la moda di falso cotone
Di basso dialetto di look delabrée
Di orribili scarpe in giallo limone

Han fasto riflesso nel loro adorare
Tra i tanti beati il fu Saint Laurent
Perfino se mai potranno comprare
I capi famosi mancando d’argent

Invero però sono affatto bassesse
Sognante Paris ed il lusso marqué
Si beve di birra la vacua jeunesse
Illusa dall’oro d’un mondo plaqué


domenica 19 gennaio 2014

Utnapishtim, o della vera storia del diluvio universale

Utnapishtim era babilonese. Il suo dio lo avvisò che stava arrivando il diluvio universale e gli consigliò caldamente di costruire una nave e di farci salire a bordo la sua famiglia e tutti gli animali possibili e immaginabili. Vi ricorda qualcosa?
Ebbene sì. La storia biblica di Noè non è altro che il remake di una precedente leggenda babilonese. Ma non è questo il punto.
Al British Museum c'è una sala con diverse tavolette d'argilla, su ognuna delle quali è riprodotta una differente versione del diluvio universale. Di fronte a quelle tavolette uno pensa a Noè. Lui se ne sta lì, tutto solo in mezzo al mare, convinto di essere l'unico superstite, quand'ecco che all'improvviso compare una vela all'orizzonte...

UTNAPISHTIM

Piove a dirotto
Piove a sfracello
Quando si dice
Piove come Dio comanda
Vai giù di sotto
Da tuo fratello
Fai il bravo Sem
C’è mamma che ti guarda

Oh mio Signore
Grazie dell’arca
Che tiene il mare
Col vento e la tempesta
Per ogni dove
La sola barca
Sopravvissuta
All’ira Tua funesta

Sumeri e ittiti
Tutti sott’acqua
Coi loro dèi
Mendaci di favella
Coi sodomiti
Ed ogni baldracca
E i mangiatori
Di coppa e mortadella

Dio dell’amore
Dio del dolore
Dammi l’amore
Dà loro il dolore


Mondati i mondi
Da ogni peccato
Rinascerà
La razza di Jahvè
Seme dei lombi
Che Tu hai salvato
Insieme al seme
E al nome di Noè

E non c’è giorno
Tra remi e scalmi
Che ci scordiamo
Di dire la Tua messa
Campane a stormo
Preghiere e salmi
Scrutando il mare
Per la terra promessa

Oh gaudio magno
La vedo in fondo
All’orizzonte
Tra i fumi della nebbia
Un mese a bagno
In dono il mondo
Senza un pagano
O un’orma sulla sabbia

Affondali inondali
Falli affogare
Gettali in fondo
Al buco più fondo


Però che strano
Pare si muova
Non son sicuro
Che sia il monte Ararat
Su Cam va piano
Sarà una prova
O l’ombra morta
Di qualche zigguràt

Più si avvicina
Più si fa netto
Lo vedo adesso
Il profilo delle vele
E la cabina
Ed il parapetto
E a sventolare
Il vessillo di Babele

Sarà un miraggio
Fata morgana
Bugiardi gli occhi
Non certo Tu Signore
Il lungo viaggio
Fatica vana
Se un’altra razza
Salvasse la sua prole

Ardili bruciali
Falli soffrire
Gettali in fondo
All’inferno più fondo


Oh sommo sgarbo
Dall’empio legno
Mi gridan contro
Insulti e contumelie
Senza riguardo
Del sacro segno
Oh sommo oltraggio
Mi chiamano infedele

La barba incolta
L’occhio sgranato
Scimmia la madre
Il padre un eresiarca
Da quella tolda
Che sia dannato
Mi urla che
La sua è la vera arca

Nome balordo
Stirpe maligna
Utnapishtim
E tanto se ne vanta
Tenace morbo
Erba gramigna
Mi faccio falce
Se vuoi la guerra santa

Squartali scalciali
Falli schiattare
Gettali in fondo
Allo squarcio più fondo


Mi chiudo gli occhi
Tappo le orecchie
Impugno a poppa
La barra del timone
Fuori gli stocchi
Mano alle picche
Sia la Tua prora
Divina lo sperone

Anche il pagano
Cerca lo scontro
Ci vuole morti
Carogna senza cuore
La spada in mano
Mi urla contro
O forse è l’eco
Ché son le mie parole

Non è il tuo dio
Che tanto canti
Per la sua forza
E per la sua saggezza
L’unico è il mio
Solo tra i tanti
Cui spetta dire
Chi è degno di salvezza

Dio dell’amore
Dio del dolore
Dammi l’amore
Dà loro il dolore


Gesù che botto
Coliamo a picco
Con tutti i figli
La vacca e la giraffa
E giù da sotto
Oh gran ripicco
Vedo che al danno
Si somma anche la beffa

Il solo vivo
L’unico al mondo
È appeso al tronco
D’un albero di mango
Ride giulivo
Si spulcia a fondo
Ma santo Dio
Perché l’orangotango?

Io non contesto
Il mio Creatore
E lieto annego
Se questo è il mio destin
Ma vi par giusto
Che il nuovo sole
In premio vada
A un seguace di Darwìn?

sabato 11 gennaio 2014

Quando il Fondo Monetario sbagliò i calcoli e nessuno se ne accorse

Nell’ottobre del 2012 il Fondo Monetario Internazionale pubblicò uno studio di tre paginette, all’interno del suo World Economic Outlook.
Lo firma in calce era di quelle importanti, ovvero del suo economista capo Olivier Blanchard.
Peccato che in pochi lo abbiano letto e che la grande stampa gli abbia dedicato, nel migliore dei casi, una distratta attenzione.
Certo, l’argomento era uno di quelli complicati che i giornalisti solitamente odiano perché sono difficili da riassumere in duemila caratteri.
Eppure era (ed è) un argomento su cui si poteva costruire una bella polemica. Una di quelle serie. Epocali.
Quelle tre paginette dicevano, in sostanza, che il Fondo Monetario Internazionale s’era sbagliato nel calcolare gli effetti dell’austerità sulla crescita economica mondiale.
Non certo robetta. Com’è possibile, mi chiedo, che non se ne sia discusso?
Io l’ho scoperto per caso. Ve lo racconto non per pedanteria, ma per dare un’idea di come la grande stampa spesso nasconda le cose più importanti.
Un giorno prendo la metropolitana e compro il nuovo numero della London Review of Books. È una rivista che si occupa per lo più di recensioni di libri. Prestigiosa ma di bassa tiratura. A Londra la trovate soltanto in poche librerie e in alcune stazioni della metro. Neppure WH Smith, la più diffusa catena di edicole, la vende.
C’è un articolo a firma di John Lanchester, un giornalista-scrittore inglese che qui gode di una certa fama. S’intitola “The Shit We’re In”, ossia “la merda in cui ci troviamo”.
Vi si parla della situazione economica della Gran Bretagna e a un certo punto viene citato questo nuovo studio del Fondo Monetario. Casco dalle nuvole. Ma di che cavolo sta parlando?
Mi reputo una persona mediamente informata. Leggo i giornali, come ogni bravo cittadino. Eppure non ne avevo mai sentito parlare.
Il punto di partenza è il cosiddetto “moltiplicatore”. In economia, il moltiplicatore è un coefficiente che serve a calcolare di quanto aumenta o diminuisce il prodotto interno lordo di un paese modificando una variabile macroeconomica.
Sembra complicato ma non lo è. Nell’articolo sulla London Review, John Lanchester lo spiega con l’esempio che vi riassumo: “Facciamo finta che ti capiti di trovare per strada 10 sterline. Le usi per comprare due paia di calzini di lana. Il tipo del negozio le usa a sua volta per comprare una bottiglia di vino, e il proprietario del negozio di vini per andare al cinema a vedere Le lacrime amare di Petra von Kant. Il proprietario del cinema ci compra della cioccolata, mentre il negoziante che gli ha venduto la cioccolata le usa per un biglietto dell’autobus. La compagnia di trasporti, infine, le deposita in banca”. Ebbene, quelle iniziali 10 sterline sono state spese sei volte, generando un’attività economica pari a 60 sterline. Ovvero, si sono “moltiplicate” per sei.
Torniamo adesso al Fondo Monetario Internazionale. In quello studio dell’ottobre 2012, la variabile presa in considerazione era la spesa pubblica.
L’FMI disse ai governi europei che avevano sbagliato tutti nel calcolare gli effetti negativi dell’austerità sul prodotto interno lordo dei loro rispettivi paesi (Ops!).
Avevano basato i propri calcoli su un moltiplicatore di 0,5. Ovvero, per ogni miliardo di euro “tagliati” dalla spesa pubblica, il PIL si sarebbe dovuto ridurre di 500 milioni.
In realtà, il moltiplicatore corretto avrebbe dovuto essere più alto, tra 0,9 e 1,7. Significa che quel famoso taglio da un miliardo di euro può ridurre il PIL di un paese fino a un miliardo e 700 milioni di euro.
Una bella differenza, non vi pare? Nonché un solido argomento per mettere in discussione le politiche d’austerità che stanno condannando l’Europa alla stagnazione permanente.
Ho cercato questa notizia che a me sembrava importante sulla stampa internazionale, e ho scoperto che ne avevano parlato Paul Krugman nel suo blog sul New York Times, un altro blogger sul Washington Post, il Financial Times in un paio di articoli relegati nella sezione “tecnica” del quotidiano. Nessuna prima pagina, nessun titolo di testa, nessun editoriale significativo. Nulla. Va da sé, nessun dibattito in nessun parlamento d’Europa.
Perché preoccuparsene, d’altra parte? Solo sulla carta lo scopo dell’austerità è quello di “salvare” gli Stati dalla catastrofe economica. Ciò che ha in realtà ottenuto, da quello che si è visto finora, è stato di proseguire nella politica di redistribuzione al contrario, dai più poveri ai più ricchi, che i governi europei perseguono ormai da decenni.
Volontariamente? Involontariamente? A giudicare dall’assordante silenzio con cui è stata accolta la “correzione” del Fondo Monetario, propenderei senz’altro per la prima risposta.

giovedì 9 gennaio 2014

Economisti. Se li conosci li eviti

Io d’economia non capisco niente, ma mi consola sapere che sono in buona compagnia. Gli economisti, per esempio. Pensate che loro ne capiscano?
Non è che siano degli idioti o degli incapaci. Alcuni sono perfino bravi. C’è solo che quando penso alla maggioranza degli economisti mi vengono in mente quei poveri giornalisti al seguito delle truppe americane in Iraq. Ve li ricordate? Li chiamavano “embedded”. Letteralmente, che dormono nello stesso letto (nel letto dei marines, nel caso in questione).
Mettetevi nei loro panni. Siete in un paese straniero e c’è una guerra. Dovete scrivere un articolo sul caporale dei marines che vi sta tirando fuori da un campo minato. Non so voi, ma piuttosto che scegliere a testa o croce dove mettere i piedi, io scriverei che ‘sto caporale mi pare John Wayne redivivo. Potete scommetterci che lo farei.
Adesso facciamo l’esempio di un economista che voglia diventare professore universitario. Ma un professore come si deve, intendo, non a Camerino o a Enna. Una cosa seria, tipo Harvard o Cambridge. Voi che fareste? Fareste una tesi di laurea sulle malefatte della finanza? Ma figurati!
Forse, se scrivete una roba assolutamente incomprensibile sulla geo-antropologia dell’ingiustizia sociale, forse e se vi va bene vi daranno una piccola cattedra in qualche minuscolo ateneo francese. Su al Nord, dove piove pure quando c’è il sole.
Ma Harvard o il MIT, beh, scordateveli.
Alberto Alesina, per esempio. Lui alla Harvard ci insegna, ed è un’autorità internazionale tra gli anti-keynesiani e i fondamentalisti dell’austerità. E’ sua (e di Silvia Ardagna) la teoria economica della cosiddetta “austerità espansiva”, secondo cui i tagli alla spesa pubblica e il consolidamento fiscale fanno crescere l’economia. Secondo voi ci ha azzeccato?
C’è un’altra famosa coppia d’economisti che sostiene la stessa tesi. Si chiamano Reinhart e Rogoff, e per anni sono stati citati ad esempio dai falchi del liberismo. Poi s’è scoperto che nei loro calcoli, fatti con l’Excel, erano contenuti dei macroscopici errori. Ma che importa? Il loro dovere l’avevano fatto: fornire una foglia di fico economico-scientifica a politiche economiche che erano dettate solamente dall’interesse dell’establishment finanziario di spartirsi le risorse pubbliche e di fare la cresta ai lavoratori.
Nel tempo libero, Alberto Alesina scrive puntuti editoriali per il Corriere della sera. Tipo quello pubblicato lo scorso 5 novembre. L’ho salvato sul mio desktop, perché trovo sia una delle cose più fantasmagoriche, strampalate e involontariamente divertenti che siano mai state scritte.
S’intitola “Forza vendete (e giù le tasse)”. Da economista come si deve l’articolo è farcito di numeri. Il debito pubblico italiano, dice Alesina, è al 133% del prodotto interno lordo, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ogni anno l’Italia paga, di soli interessi sul debito, 85 miliardi di euro, pari al 5,4% del PIL. E pure qui nulla quaestio.
Il bello arriva al capitolo soluzioni. O alziamo le tasse, sostiene Alesina, oppure ci vendiamo tutto. Tutto, ma proprio tutto: le quote azionarie che lo Stato possiede in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, Poste Italiane, Sace, ST Microelectronics e Cassa depositi e prestiti. Se ne potrebbero ricavare “60 miliardi di euro”, più altri 36 se ci mettiamo pure le Ferrovie.
Vendendo le aziende locali potremmo intascare ulteriori 30 miliardi, e addirittura 300 miliardi, sissignore trecento seguito da nove zeri, se ci sbarazziamo di tutti gli immobili (se nel calcolo siano compresi anche i tavoli e le sedie Alesina non lo dice, e per favore non fatelo avvicinare agli Uffizi e ai quadri di Raffaello!).
In totale, lo Stato italiano potrebbe raggranellare una bella sommetta, pari al 21% del PIL (il 6% dalla vendita delle quote azionarie, il 15% da quella degli immobili).
Ora, dico io, ma come fai a dire seriamente una cosa del genere? Perché Alesina è serissimo, altezzoso perfino. L’avete mai visto in fotografia? Ha una faccia da “come-ti-permetti-di-contraddirmi” e una chioma da direttore d’orchestra. Sara per questo che comanda i numeri a bacchetta.
Adora le addizioni ma avversa le sottrazioni. Somma quanto lo Stato guadagnerebbe vendendo tutte le sue quote azionarie ma non sottrae i dividendi che perderebbe dalla cessione (per esempio) dell’ENI.
Somma i guadagni delle vendite immobiliari ma, non specificando di quali immobili stia parlando, sorge il dubbio che non sottragga quanto bisognerà poi spendere in affitti per scuole, ospedali, uffici.
Ma anche prendendo per buone le sue cifre, vi pare serio che lo Stato debba sbarazzarsi di tutta la sua argenteria per pagare al massimo tre-quattro anni d’interessi sul debito pubblico? La sorte capitale non sarebbe neppure intaccata (ah già, a quella provvederebbe l’austerità espansiva. Campa cavallo!).
E poi, porcaccia miseria! C’era bisogno di una cattedra alla Harvard University per sapere che puoi pagare i debiti vendendoti la casa? L’usciere di un qualsiasi monte dei pegni sarebbe stato più che sufficiente!

mercoledì 1 gennaio 2014

Perché non possiamo non dirci capitalisti

Il testo base dell’economia di mercato, la sua Bibbia, risale al 1786. Fu scritto in Gran Bretagna da Joseph Townsend, nel pieno della cosiddetta prima rivoluzione industriale, appena diciotto anni dopo l’invenzione della macchina a vapore. Il titolo: “A Dissertation on the Poor Laws”, una dissertazione sulle leggi per i poveri.
Le Poor Laws erano, all’epoca, l’equivalente dell’odierno welfare state e imponevano alle parrocchie il sostentamento dei poveri.
Townsend scrisse che l’assistenza ai poveri rappresentava un problema per lo sviluppo economico delle industrie e delle campagne. Per lui, medico e scienziato, le diseguaglianze sociali non erano altro che una legge di natura che i governi avrebbero dovuto lasciare a loro stesse.
Proprio per questo sostenne, con una franchezza oggi inimmaginabile, che l’unico modo di far lavorare i poveri è metterli di fronte ad una e ad una sola alternativa: la morte per fame.
O lavori o muori. Le leggi assistenziali, diceva, ostacolano i datori di lavoro: perché un lavoratore dovrebbe impegnarsi a far bene il proprio lavoro se sa che in caso di licenziamento la parrocchia si occuperà di lui e della sua famiglia?
Ma le leggi assistenziali ostacolano anche i lavoratori onesti, quelli che si sbattono dalla mattina alla sera per mantenere i figli e non contestato i propri datori di lavoro. Se capita loro d’aver bisogno d’assistenza, ecco che scoprono che i pigri e gli sfaticati hanno già intascato tutti i sussidi disponibili.
Non sono io a dire che la “Dissertation on the Poor Laws” è il testo base del capitalismo. Lo scrisse Karl Polanyi, nel lontano 1944. Malgrado la terribile e sgrammaticata traduzione italiana, il suo “La grande trasformazione” (Einaudi) è un libro che tutti dovrebbero leggere.
M’è tornato in mente l’altro giorno, leggendo su Repubblica i risultati dell’ultimo sondaggio Demos curato da Ilvo Diamanti. Gli italiani, a quanto pare, preferiscono pagare meno tasse piuttosto che salvaguardare i servizi pubblici.
Appena otto fa, nel 2005, il 54% degli italiani riteneva che potenziare i servizi pubblici fosse più importante che ridurre le tasse. Oggi il 70% preferisce quest’ultima opzione.
Non è un fenomeno solo italiano. L’anno scorso, in Gran Bretagna, l’istituto Ipsos MORI scoprì che le giovani generazioni britanniche non credono più nel welfare state. Alla domanda: “la creazione del welfare state è uno dei risultati di cui la Gran Bretagna dovrebbe essere più orgogliosa?”, solo il 20% dei nati dopo il 1980 rispose di sì. Tra i nati prima del 1945, la percentuale schizzava al 70%.
Alla domanda: “il governo dovrebbe spendere di più nell’assistenza per i poveri, anche se ciò comporta aumentare le tasse?”, mentre il 40% per cento dei nati prima del 1945 ancora rispondeva di sì, tra i giovani la percentuale si riduceva al 20%.
Sono numeri terribili. Le giovani generazioni britanniche, abituate a lavori flessibili e all’insicurezza permanente, non conoscono altro. Lo stesso vale, con una decina d’anni di ritardo, per le giovani generazioni italiane.
E’ la guerra di tutti contro tutti, la sopravvivenza del più forte, la legge della giungla.
Lo Stato è un nemico, non più l’unico argine allo strapotere delle leggi del mercato. Decenni di conquiste sociali spazzate vie da una crisi che il capitalismo finanziario ha provocato senza pagarne le conseguenze. Anzi, scaricando la colpa sugli Stati.
Miliardari senza vergogna che chiedono ad alta voce altri tagli allo stato sociale, col consenso plaudente e ammirato delle loro vittime.
O lavori o muori. Caso mai non ve ne foste accorti, il capitalismo ha trionfato.

venerdì 11 ottobre 2013

Diventiamo tutti buoni se i clandestini sbarcano morti

Sono circa 20 anni che faccio finta di scrivere un romanzo. Non perché creda davvero che un giorno lo finirò. Più che altro per darmi un tono. Il protagonista è un commissario di Polizia che si chiama Rocco Stevens. Indaga sul ritrovamento del cadavere di una ragazza, Lucia Valenti, o per meglio dire di una sua gamba. L'indagine è resa complicata dalla coincidenza temporale con l'annegamento di centinaia di clandestini. Qui pubblico, in anteprima, il capitolo sul funerale degli annegati. Non riaprivo da chissà quanti mesi il file di Rocco Stevens, perché nel frattempo ho iniziato a scrivere un altro romanzo che naturalmente rimarrà a sua volta incompiuto. L'ho fatto solo dopo la tragedia di Lampedusa. Spero mi sia perdonata l'ironia, ma l'idea era proprio quella di scrivere un romanzo drammaticamente ironico.

Capitolo Cinque
Un po’ ci sono rimasti male. Cioè s’aspettavano un imam autentico, arabesco e col turbante. Che ne so una cosa tipo Bin Laden. Invece c’è quello lì. La barba ce l’ha e pure l’aspetto turco, però è di Castellammare del Golfo. All’anagrafe fa Gaspare Pandolfo, invece il nome arabo fa più o meno Mustafà Menelik. Cioè non proprio ma gli somiglia.
E’ il presidente di non so quale associazione musulmani d’Italia. Comunque ha un documento con il visto della prefettura e il prefetto che è presente gli ha stretto la mano. Dunque tutto a posto. Lo conosce.
Il problema è che dei 156 morti annegati più Lucia Valenti (a tanto siamo arrivati) non c’è modo di capire chi è cristiano chi maomettano chi interista e chi juventino. Da cosa lo capisci, dal colore della pelle? Per esempio dice che in Etiopia ci sono un sacco di cristiani, se non te lo spiegano li vedi neri e per sbaglio li registri come musulmani. Insomma, è un errore legittimo.
Comunque per non offendere nessuno alla fine hanno pensato che era meglio fare tutto assieme. Cioè all’inizio facevano uno, due funerali alla volta e poi mano a mano li seppellivano. Più che altro per il caldo. Poi però ne sono arrivati più di cento in un colpo solo e a quel punto s’è deciso che per questi era meglio un funerale unico. Allo stadio comunale. Tutti insieme appassionatamente.
Anche per dare un segnale di concordia e amore universale nella tragedia. Tipo non tutti i mali vengono per nuocere eccetera. Così eccoci qua: vescovi, sindaci, prefetti, onorevoli, senatori e pure l’imam di Castellammare del Golfo. E un sacco di televisioni, è ovvio. Ma proprio tante!
Cioè, è uno spettacolo: tutte quelle bare marrone scuro, marrone chiaro, coi morti dentro avvolti in un lenzuolo bianco caso mai fossero musulmani, tutte in fila sul verde del campo di calcio e poi il sole che brilla forte sugli ottoni e i piatti e le marsine della banda musicale.
I carabinieri in alta uniforme, coi pennacchi, e i vigili urbani pure loro con quella specie di elmo. Pure la signora che l’altro giorno al bar diceva: dovrebbero affondarli tutti così gli finisce la cuccagna e la smettono di partire, pure lei è venuta e piangiucchia e s’è fatta la permanente caso mai la inquadrano. Diventiamo tutti buoni, questa è la verità, se i clandestini sbarcano morti.
Peccato non si vedano i gabbiani. Non si vedono da sotto, voglio dire, perché il campo sportivo è coperto dal mega tendone. Di sentirsi si sentono, griiic-griiic tutto il tempo, e se non fosse per la banda musicale e le preghiere e il vocio generale secondo me si sentirebbe pure il battere delle ali.
Ogni tre bare c’è un ventilatore. Cioè non è un calcolo preciso. Più o meno. Col caldo che fa e le casse da morto comprate in blocco, voglio dire non di quelle super-lusso super-zinco super-tenuta stagna, e coi morti sfatti dall’acqua di mare e dai pesci, potete immaginare l’olezzo. I ventilatori non si capisce bene a che servono, se a raffreddare le bare o a diffondere uniformemente il puzzo di cadavere oppure, siccome l’aria raso terra è raffreddata dalle ventole e quella calda va verso l’alto, a far venire l’acquolina ai gabbiani lassù.
Comunque vescovi preti e sacrestani non sembrano fare caso all’odore. Si saranno abituati, dopo che per millenni hanno costruito chiese sopra ossari e catacombe. Pure il vino e le ostie. Come se nulla fosse. Provate ad inghiottirle voi se ci riuscite. Senza un attacco di nausea, voglio dire, con la puzza che c’è.
Anzi: sembrano perfino contenti. Gli unici là in mezzo, insieme ai gabbiani. Il vescovo allarga le braccia e con la tonaca che gli penzola larga sotto le ascelle pare pronto a spiccare il volo. Sarà l’effetto della tiara, che ne so, ma sembra vero un gabbiano però mezzo viola.
Onestamente l’imam non è così felice. Muore di caldo, si vede, e non fa altro che asciugarsi la fronte e la faccia con un fazzoletto. Ogni tanto se lo porta al naso, secondo me l’ha inzuppato di profumo. Se è vero ha fatto bene.
Proprio adesso il vescovo sta parlando tipo di tolleranza religiosa. “Guardate tutti questi nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della resurrezione – dice – vi sfido a capire dai loro volti, dai loro occhi chiusi nell’eterno riposo, dalla serenità che solo il sonno dei giusti può dare, da tutto questo vi sfido, o uomini, a capire quale nome avesse il loro Dio eccetera eccetera”.
Questo sta dicendo, magari non proprio parola per parola ma il senso è questo. Perché negarlo o vergognarsene: quando ha detto “o uomini”, che poi l’ha praticamente gridato, Rocco Stevens ha sentito un brivido dappertutto. Cioè a tutti piace essere scettici o strafottenti, ma di fronte a certe cose viene la pelle d’oca e non c’è niente da fare.
E’ più o meno a questo punto che l’imam casca per terra. C’è lì il prefetto che cerca di reggerlo e siccome non ci riesce lo molla per non finire a terra appresso a lui. Però insomma gli evita la caduta a pera. Più che altro gliela attutisce un po’, se no sai la botta.
Il vescovo gira appena la testa a sud-est e continua a predicare. Cioè, è vero quello che dice e forse ci crede perfino, l’amore universale la tolleranza religiosa e compagnia cantando, però lui è bello sontuoso e con la tiara supera i due metri mentre l’imam di Castellammare del Golfo è piccolo e d’aspetto malaticcio e poi (cavolo!) lo sappiamo tutti che è un prete finto, cioè è una specie di macchietta dai. Ma chi ci crede? Insomma, un vescovo non è che può interrompere una funzione solenne perché un mezzo musulmano s’è intossicato di profumo fino a svenire.
*****
Tutti avremmo voglia di vivere in un mondo perfetto. L’ultimo dell’anno, il 31 di agosto alla fine delle ferie, a volte di sera l’attimo prima di addormentarci. Cioè, chi è che ogni tanto non ci pensa? Ai fioretti di san Francesco e così via.
Voglio dire: non è per non credere al vescovo, per carità le sue parole sono bellissime e forse ci crede perfino lui che certo qualche imbroglio deve averlo fatto per diventare vescovo. Cioè, va bene la poesia ma lo sappiamo tutti che nella chiesa le cose funzionano come nel resto del mondo. Ok cambiamo discorso.
Lui però (lui Rocco Stevens) era presente quando hanno ripescato gli ultimi 80 cadaveri. Era domenica, la spiaggia stracolma di persone, ombrelloni, secchielli e palette. La corrente, non so come, aveva sbattuto i cadaveri tutti da un lato della piccola baia, così i bagnanti non ebbero bisogno di uscire dall’acqua ma solo di evitare l’angolo della spiaggia inquinato dai morti.
L’unica cosa fu che lo stabilimento balneare più vicino, per rispetto, abbassò un poco il volume della musica, però non poté spegnerla del tutto perché era appunto domenica e avevano già le prenotazioni per il corso di pilates. Cioè, gli stabilimenti lavorano solo d’estate, giugno luglio agosto, e le domeniche sono solo 12. Ognuno ha le sue ragioni, a criticare col portafoglio degli altri siamo bravi tutti.
Vigili del fuoco, uomini della protezione civile, alcuni dipendenti dell’azienda della nettezza urbana con contratto a tempo determinato e poi naturalmente poliziotti carabinieri eccetera. Erano loro a dover raccogliere i cadaveri e a infilarli nei sacchi, mentre i bagnanti stavano là con l’acqua all’altezza dell’ombelico, fermi immobili a godersi lo spettacolo per non dire di quelli affacciati alle ringhiere degli stabilimenti.
Ad un certo punto fu proprio lui (lui Rocco Stevens) ad incazzarsi di brutto col comandante della capitaneria di porto. Cioè, era una cosa insopportabile: loro lì a ripescare gli annegati e le moto d’acqua avanti e indietro a sollevare onde e schiuma di cadavere. E che cazzo, gli disse, almeno fate un cordone di motovedette, gommoni, che ne so quello che avete, pure i canotti se serve! Insomma non è possibile che uno sta lì ad un metro da un africano in decomposizione e un coglione che si deve divertire per forza te lo fa sbattere addosso che pare un film dell’orrore.
A uno per poco non l’arrestarono. Siccome non voleva smetterla cominciò a dire il diritto di cronaca qua il diritto di cronaca là, e tutto perché voleva scattare fotografie col cellulare, figuratevi. Leggono le cose sui giornali e manco capiscono il significato: vieni a pescare i morti, coglione, e vedrai che meraviglia il diritto di cronaca. Peccato non l’abbiano arrestato veramente.
Si perde la fiducia nell’umanità. Già ne ha poca, uno che fa il mestiere suo (suo di Rocco Stevens), nel senso che per un poliziotto fidarsi è bene ma non fidarsi eccetera. Questa però è una cosa più interiore, di quelle che strappi il vangelo e con le pagine ci fai gli aeroplanini di carta. Uno schifo, va, tutte quelle panze bianche, gli ombrelloni a spicchi, i pedalò e loro invece costretti a fare i beccamorti.
Pure adesso, voglio dire. Il vescovo che continua a vagheggiare e la puzza di cadavere che solfeggia l’atmosfera e un caldo che farebbe diventare stitiche le anime dei santi. E gli unici a far finta di ascoltare sono sempre loro: poliziotti vigili eccetera.
Anche i giornalisti, cioè, una foto qui una là, un paio di appunti e via, quanto mi piacerebbe vederli dritti sull’attenti senza manco potersi grattare. Cioè, mi piacerebbe veramente perché intanto che loro scrivono e predicano che al confronto il vescovo è un dilettante, Rocco Stevens e compagnia diventano cretini: un giorno ci ordinano di ributtare a mare gli sbarcati un altro dobbiamo portarli a terra ma solo se sono morti, e siccome coi defunti non si sa perché bisogna essere più indulgenti dobbiamo stare sull’attenti sotto il sole la pioggia e la merda di gabbiano. Cioè, dico io: ad essere rigorosamente, aritmeticamente e geometricamente sinceri, non sarebbe meglio essere indulgenti direttamente coi vivi? Solo solo per risparmiarsi la parte da cretini.
Una caldo allucinante il vescovo che con tutto il rispetto se la stramena in pubblico l’imam siculo-maomettano che annaspa mentre un carabiniere cattolico romanista lo sventola col corriere dello sport i giornalisti eccitati dall’evaporazione dei cadaveri e noi in divisa a fare le belle statuine.
Onestamente, quando i gabbiani trovano la strada e si strafogano a centinaia sotto al tendone che sembrano pipistrelli di venti chili e proprio non hanno paura dell’uomo e si mettono a beccare le casse da morto, e tutti dico tutti scappiamo gridacchiando, onestamente per noi in divisa è un specie di sollievo. Almeno il sangue torna a circolare e i piedi gonfi di caldo sentitamente ringraziano. Non dovrei dirlo ma il primo è lui (lui Rocco Stevens) a scappare via ridendo che pare un bambino. Saltella, proprio, e fa “uuuuuuuh uuuuuuuh” e ride come uno scemo. Meno male che tutti pensano a scappare e nessuno se ne accorge. Meno male vero, va.

mercoledì 7 agosto 2013

Berlusconi e l'aria fritta

Una gigantesca nube d’aria fritta ammorba i cieli dell’Europa.
Viene dall’Italia, sospinta da venti africani. Quel che resta di Silvio Berlusconi brucia lentamente: una mistura nauseabonda di lardo, cerone, tintura per capelli, l’incenso e l’acqua santa con cui copriva il profumo pesante delle bagasce, olio crismale, botox e viagra.
Intellettuali soi-disant liberali alimentano il fuoco gettando in fretta nel braciere tutte le stronzate che hanno scritto negli ultimi 20 anni. Le paraculate, gli spericolati sofismi, il cerchiobottismo opportunista, il gattopardismo di seconda mano con cui hanno difeso l’indifendibile.
Rivolgono al fu Silvio l’ultima preghiera (o forse la penultima, chi lo sa), supplicandolo di farsi da parte. Gli danno consigli da servi: per il suo bene. Vuoi la riforma della giustizia? Allora non pretenderla in maniera così gridata e smaccata, continua a sostenere il governo delle larghe intese e se son rose fioriranno. Lo ha scritto, con meno anacoluti e più prudenza, il direttore del Corriere della sera il 3 di agosto. Invece di dirgli semplicemente: sei un delinquente prego accomodati.
Oppure indulgono nella perversione preferita dagli italiani. Il provincialismo. Con che goduria i maggiori quotidiani hanno ripreso i titoli dei media internazionali. E tutti a dire (italiani e forestieri) che solo da noi possono succedere certe cose.
Essendo in realtà incapaci di flagellarci da soli lasciamo che siano gli altri a farlo. A ci piace assai. Dimmi che sono un porco, dimmi che sono una troia. E’ così che funziona: nessuna perversione può dare piacere se non si abbina e combina con la consapevolezza del peccato.
Perché il gioco erotico funzioni occorre, è ovvio, un modello di purezza. Uno stereotipo d’onestà virginale da contrapporre allo stereotipo della nostra sozzura. Per noi italioti, questo modello è rappresentato dall’Europa. Dalle mitiche classi dirigenti europee.
Ve l’immaginate un Berlusconi in Francia o in Gran Bretagna o in Germania? L’avrebbero già mandato via a calci. Tutto vero. Sacrosanto. Perfino scontato. Talmente scontato che puzza d’aria fritta.
Viene voglia di dare testate al muro.
Santo Dio, come si fa a non vederlo? A non dirlo? A non urlarlo a pieni polmoni?
Volete sapere la vera, sostanziale differenza tra l’Italia e i paesi europei che amiamo prendere a modello? Tra Berlusconi e i leader politici di codesti paesi? L’onestà? Ma fatemi il piacere!
Dal dopoguerra ad oggi, mai l’Europa ha avuto una classe politica più corrotta dell’attuale. L’Europa, non soltanto l’Italia. Hanno venduto l’anima dell’Europa, di ciò che l’Europa avrebbe potuto e dovuto essere, ai delinquenti della finanza.
Chi, esattamente, dovrebbe farci la morale? David Cameron o i suoi predecessori Tony Blair e Gordon Brown, che hanno trasformato la Gran Bretagna nel più grande paradiso fiscale d’Europa?
Nicolas Sarkozy, l’uomo che festeggiò la sua prima elezione sullo yacht del finanziere Vincent Bolloré?
La presidentessa del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, che al summenzionato Sarkozy scriveva lettere degne della Santanchè (Nota 1) e che da ministro delle Finanze elargì quel petit Berlusconì di Bernard Tapie della bellezza di 400 milioni di euro (pubblici) a compensazione delle sue presunte disgrazie? (Nota 2)
L’attuale president Francois Hollande, beccato con i pantaloni abbassati nel bel mezzo delle sue tirate contro i ricchi che non pagano le tasse, quando si scoprì che il suo ministro delle Finanze e il tesoriere della sua campagna elettorale avevano entrambi conti in banca alle isole Cayman? (Nota 3) Dall’Olanda, tanto occhiuta quando si tratta di giudicare i conti pubblici altrui quanto dimentica del proprio ruolo di paradiso fiscale? (Nota 4)
Il Financial Times? Ah ah ah!
Il gruppo editoriale proprietario del Financial Times (e dell’Economist) si chiama Pearson plc. Traduco da “The Great Tax Robbery. How Britain became a tax haven” (La grande rapina delle tasse. Come la Gran Bretagna divenne un paradiso fiscale) di Richard Brooks, edito da Oneworld.
“Nel novembre 2009 una lettera della Pricewaterhouse Cooper al fisco lussemburghese rivelò che il gruppo voleva investire 587 milioni di dollari negli Stati uniti, nel settore dei libri didattici, inizialmente attraverso uno schema in cui una compagnia britannica chiamata Embankment Finance LTD (EFL) avrebbe costituito una filiale in Lussemburgo. La EFL di Londra avrebbe trasferito i soldi alla sua filiale lussemburghese, che li avrebbe poi investiti in un’altra società del granducato, chiamata Pearson Luxembourg Nr. 2 srl, in cambio di azioni di quest’ultima compagnia. La Pearson Luxembourg Nr. 2 srl., a sua volta, avrebbe prestato i soldi a un’altra società lussemburghese, FBH, che a sua volta li avrebbe reinvestiti per il business americano”.
Vi gira la testa? Non preoccupatevi, non è colpa vostra. Lo scopo era proprio questo: far girare la testa alle agenzie delle entrate inglesi e americane e non pagare le tasse. L’autore del libro da cui ho tratto questo passo, Richard Brooks, è andato a visitare la sede della filiale lussemburghese dell’editore del Financial Times, al numero 17 della Rue Glesener. Traduco: “La sede legale era una stanza sopra un negozio d’articoli sportivi dalle parti della stazione centrale di Città del Lussemburgo. Vi potei accedere solo dopo numerose violazioni di domicilio fatte invocando l’interesse pubblico, in cima ad una rampa di scale scarsamente illuminate, dove il nome di uno dei maggiori gruppi editoriali del mondo si trovava in un foglio di carta in formato A3 insieme ad altre 17 società, attaccato con delle puntine da disegno ad una di quelle bacheche che di solito si trovano nelle case degli studenti. Ovviamente non era stata messa lì per essere vista da qualche estraneo, tanto è vero che quando bussai alla porta non mi accolsero voci di benvenuto. “Com’è arrivato fin qui? Chi le ha aperto la porta?” abbaiò lo scozzese che gestiva la CPC Business Services srl, una delle centinaia di società per la gestione di servizi finanziari che fanno il loro remunerativo lavoro nei sottoscala lussemburghesi. Nella fattispecie responsabile, a quanto pare, di sbrigare le scartoffie della casa editrice del Financial Times”.
Tutti i giornali italiani che hanno pubblicato l’editoriale del Financial Times che dava del buffone a Berlusconi, condannato per evasione fiscale, dovrebbero altresì pubblicare queste righe. Solo solo per completezza d’informazione.
Non difendo Berlusconi. Solo i suoi cortigiani mi fanno più ribrezzo di lui. Difendo il mio essere italiano. Difendo la mia storia, la mia cultura, le mie radici. E come Francesco De Gregori, anch’io ho avuto i miei due minuti di berlusconismo: quando ho visto Sarkozy e la Merkel sbeffeggiarlo. Sarkozy e la Merkel, capite? Non esattamente De Gaulle e Adenauer.
E allora qual è la differenza tra Berlusconi e gli altri leader europei? Solo una. Una soltanto.
Berlusconi è un corruttore. Gli altri sono dei corrotti. Tutto il resto è aria fritta.


Nota 1: http://www.lemonde.fr/societe/article/2013/06/17/la-lettre-d-allegeance-de-christine-lagarde-a-nicolas-sarkozy_3431248_3224.html

Nota 2: http://www.lemonde.fr/societe/article/2013/05/23/affaire-lagarde-tapie-si-vous-avez-manque-un-episode_3415548_3224.html

Nota 3: http://www.theguardian.com/world/2013/apr/03/french-tax-fraud-hollande?guni=Article:in%20body%20link

Nota 4: http://www.ft.com/cms/s/2/5a9f0780-a6bc-11e2-885b-00144feabdc0.html#axzz2RqdcNipn

domenica 21 aprile 2013

Beppe Grillo, perché ce l'hai con me?

Personalmente, io non ho niente contro Beppe Grillo. Semmai è lui che ce l’ha con me. Il mio problema è che in passato ho fatto politica. Sono stato addirittura consigliere comunale. E per questo sono stato mandato a fare in culo. Insieme a tutti gli altri. Nel mucchio. Per quale motivo dovrei votare per qualcuno che, a parti invertite, non voterebbe mai per me? Perché dovrei accordare la mia fiducia a chi non si fida di me? La politica attiva, per quanto mi riguarda, è una pagina chiusa. Non ricordo neppure quando è stata l’ultima volta che sono andato a votare. Quest’anno però avrei votato. Per Bersani. Non per passione. Per umana simpatia. Non l’ho fatto soltanto perché sono residente all’estero, e avevo dimenticato di comunicare al consolato che nel frattempo avevo cambiato indirizzo. Però Bersani mi sta ancora simpatico. Malgrado tutto quello che è successo. Molta gente che l’ha votato, oggi gli sputa addosso. Io che non l’ho fatto invece lo difendo. Bersani è la vittima di un paese senza classe dirigente. E’ anche colpa sua, certo, se l’Italia non ha una classe dirigente. Ma è per questo che mi è doppiamente simpatico. Perché è una figura tragica. Beppe Grillo, invece, è un opportunista. Ha vampirizzato un tessuto di associazioni e movimenti attivi in tutta Italia, mettendo a disposizione uno strumento mediatico che permettesse loro di entrare in contatto. Ha messo assieme le loro battaglie, dal referendum contro la privatizzazione delle reti idriche al movimento no-Tav, miscelando il tutto con dosi massicce di antipolitica. In questo modo ha preso i voti della sinistra e ha fatto man bassa del qualunquismo di destra. Si batte per il salario minimo per tutti i disoccupati e nello stesso tempo contro il fisco. Come se i soldi per i disoccupati dovessero venire da Marte. Ha perfino proposto di trovare questi soldi togliendoli alla cassa integrazione. Io proprio non riesco ad immaginare una cosa più di destra di così. Per metterla giù facile, dice cose a cazzo. Come tutti i politici, per carità. E’ il motivo per cui non voto da anni. Lui però pretende di non essere un politico. Fa propaganda ma si vanta di non farla. Ha preso il 25 per cento dei voti ma sostiene di parlare per tutti. Pure per quelli che non l’hanno votato. Pure per me. Messo in difficoltà dall’elezione di Grasso e Boldrini, votati anche da alcuni dei suoi, ha tirato fuori dal cilindro la candidatura di Rodotà alla presidenza della Repubblica e ha ripagato il PD con la stessa moneta. E qualcuno, nel PD, c’è cascato. Rodotà è una grandissima persona e un grande intellettuale. Sono cresciuto leggendo i suoi articoli, negli anni in cui Beppe Grillo gli preferiva Pippo Baudo. Però è un anticlericale come pochi. Beppe Grillo sapeva benissimo che l’area cattolica del PD non l’avrebbe mai votato. E’ per questo che l’ha scelto. Abile mossa, per carità, com’era stata abile la mossa di Bersani nel candidare Grasso e Boldrini. Mosse tattico-politiche, tanto l’una quanto l’altra. E’ un gioco, il suo, che può durare solo fino a quando rimane all’opposizione. Per governare deve allearsi con qualcuno. Se lo fa con la sinistra perde l’elettorato di destra, e viceversa se si allea con la destra. Per questo sta facendo di tutto perché PD e PDL facciano il cosiddetto governissimo. Non mi scandalizzo. E’ una tattica politica come tante altre. Ma non è nient’altro che questo: tattica politica. Una fra le tante. Beppe Grillo, sei un politicante. L’ennesimo politicante di cui il nostro Paese non aveva proprio bisogno. L’Italia non aveva bisogno dell’ennesimo partito. Di Vito Crimi o della Lombardi. L’Italia aveva bisogno di movimenti e associazioni presenti sul territorio, e tu le hai usate e strumentalizzate per costruirti il tuo partitino. Bravo. Bella mossa. Però a me sta più simpatico Bersani. Adoro la sua assoluta mancanza di carisma. Il suo disperato tentativo di galleggiare tra i baciapile e Nichi Vendola. La sua consapevolezza che l’Italia è l’ultima ruota del carro tra i paesi occidentali, e che se un giorno Barack Obama dovesse decidere di invadere… che ne so… la Slovacchia, noi saremmo costretti ad andargli appresso. Bersani mi piace perché davvero non sa che minchia fare. Perché se dice una cosa di sinistra, tipo che quello che serve è più stato e meno mercato, lo spread schizza a livelli himalaiani. Se invece si sbilancia troppo a destra gli scappa via l’elettorato. E così sta zitto, e prende sberle da destra e da sinistra. Caro Bersani, se hai bisogno di qualcuno che ti raccomandi per trovare un lavoro a Londra, fammelo sapere. Beppe Grillo no. Lui non ha bisogno d’aiuto, è uno che cade sempre in piedi. E’ passato da Pippo Baudo a vittima del sistema, da castigatore delle multinazionali (tra parentesi, l’unico Beppe Grillo che mi sia mai piaciuto) ad antipolitico di professione. A lui non lo raccomando. Manco morto. Lui mi dà fastidio perfino più di Angelino Alfano. Perché che Alfano dica minchiate è scontato. Si sa. Quando Gasparri dice qualcosa, o la Finocchiaro, nessuno davvero ci crede. Beppe Grillo invece, tra i suoi seguaci, gode ancora di un credito infinito. Ragazzi, svegliatevi. Prima che sia troppo tardi. Beppe Grillo è un politicante. Piglia voti a destra e a sinistra come solo i peggiori politicanti sanno fare. Beppe Grillo è l’uomo che ha mandato a fare in culo Bersani quando Bersani, all’indomani del voto, avrebbe fatto di tutto per allearsi con lui. Pur di fare un governo. E lo ha fatto per puntare allo sfascio, per costringere il PD ad allearsi col centrodestra e poi dire “avete visto sono tutti uguali” e lucrare un 3 per cento di voti in più alle prossime elezioni. Come un politicante qualsiasi.

sabato 9 marzo 2013

Il paese dei però

L’Italia è diventata il paese dei però. Il PD ha vinto le elezioni però le ha perse. Berlusconi è stato abbandonato da metà dei suoi elettori però dicono abbia vinto. Bebbe Grillo ha addirittura trionfato, però non vuole governare (lui è un voyeur: gli piace guardare gli altri che lo fanno). Mario Monti ha perso. Su questo non ci sono dubbi. Però non se ne parla. Non abbastanza, per lo meno. Soprattutto, non si parla di quanto la sua candidatura abbia inciso sull’esito del voto. La ragione sociale del “montiani” era chiara: non consentire al PD di vincere le elezioni. Direttamente, sottraendogli una parte dell’elettorato cosiddetto “moderato”. Indirettamente, fornendo una sponda all’UDC per evitare un accordo tra Casini e Bersani. Azzoppato il PD, ecco che Monti sarebbe diventato l’ago della bilancia. Una strategia vista di buon occhio dalle cancellerie europee, dal PPE e da una parte dell’establishment italiano: Montezemolo, il Corriere della sera, parte del mondo bancario. Un establishment che (lo ha dimostrato il voto) non conosce il Paese che pretende di guidare, e che però controlla una parte significativa dei mezzi d’informazione. Rimarcare il grossolano errore di calcolo di Monti, denunciarne l’irresponsabilità, sottolineare il ruolo che ha avuto nell’avvitamento della crisi politica italiana, vorrebbe dire non solo criticare Monti ma sconfessare se stessi. Per cui è meglio glissare, o dar la colpa a Bersani o a Grillo o al popolo italiano. Il Porcellum, l’onda montante dell’antipolitica, la crisi economica. Tutti fattori che hanno avuto il loro peso e che però si conoscevano già prima del voto, e che una classe dirigente degna di questo nome avrebbe dovuto ponderare prima di mettersi a scherzare col fuoco. La borghesia italiana ha un lunga tradizione di inettitudine. Non è mai stata capace di farsi classe dirigente e ha di volta in volta delegato a fior di delinquenti il lavoro sporco: Mussolini, la DC, Berlusconi. La candidatura di Monti è la dimostrazione che quando prova a fare da sé riesce solo a combinare disastri. La verità è che l’ingovernabilità era l’obiettivo primario di Mario Monti, di Montezemolo e del Corriere della sera. Bisognava far venire Bersani e Vendola a più miti consigli. Costringerli ad un accordo con loro. Garantirsi per sé e per gli amici una bella fetta del patrimonio pubblico che si vorrebbe privatizzare per pagare i debiti del Paese. Si sono fermati a metà strada. Il paese è ingovernabile, però l’ago della bilancia s’è perso nel pagliaio. Oggi queste stesse persono fanno appello al “senso di responsabilità” delle forse politiche. Quel senso di responsabilità che loro per primi hanno gettato alle ortiche per meschini calcoli di bottega. Avessero almeno la decenza di tacere.

giovedì 8 dicembre 2011

Quando Gabriella Carlucci salvò il mondo

Chi salverà l’euro dai suoi salvatori?
Guaritori, cerusici e sciamani si affollano da mesi attorno al capezzale del moribondo, dividendosi più o meno in tre gruppuscoli.
C’è chi sostiene che per salvare l’euro bisogna amputare le estremità in cancrena, dando vita di fatto ad una nuova lega anseatica aperta alla Francia (finché dura).
C’è chi sostiene che la Banca Centrale Europea o chi per lei dovrebbe garantire per l’intero debito pubblico europeo. Se le difficoltà dell’Italia (per esempio) spaventano i possibili acquirenti dei BOT, la garanzia che al rimborso penserà l’Unione Europea dovrebbe tranquillizzarli. In cambio, occhiuti ragionieri tedeschi passeranno al setaccio la spesa pubblica dei paesi “spendaccioni”, di fatto commissariandoli.
Non avendo ancora capito se pendere di qua o di là, i politici europei si limitano a stare seduti sulla riva del fiume, facendo pagare il pedaggio ai cadaveri trascinati dalla corrente. Quando c’è da rimborsare i debiti, si sa, non si guarda troppo per il sottile.
Sembra che alla radice ci sia un difetto genetico. L’euro sarebbe nato con una sola gamba. E’ una moneta unica che ha lo stesso valore in 17 paesi, ma questi 17 paesi hanno ciascuno una diversa politica economica e differenti regimi fiscali. Gli Stati uniti, per esempio, sono peggio indebitati di noi europei, ma nessuno si permette di attaccare il dollaro.
Se qualcuno si azzardasse a pretendere interessi troppo elevati sui buoni del tesoro americani, con un tratto di penna la Federal Reserve potrebbe stampare dollari à gogo per svalutarne il valore. Mi hai prestato i tuoi soldi quando il dollaro valeva dieci, te li restituisco adesso che vale sei. E grazie per il disturbo.
In Europa non si può. Svalutare l’euro può convenire oggi all’Italia ma non alla Germania; domani potrebbe convenire alla Francia ma non al Lussemburgo e così via. Per capire cosa questo significhi non c’è bisogno di una laurea in economia. Basta avere partecipato ad una riunione condominiale.
C’è chi i castelli li costruisce con la sabbia, chi lo fa con le banconote. Con una differenza: la sabbia è molto più affidabile.
Pensate davvero che basti un po’ d’ingegneria monetaria per risolvere i problemi dell’economia? Che il mondo sia in recessione per colpa dell’euro, la cui salvezza a sua volta dipende dall’Italia?
E’ quello che qualche giorno fa ha dichiarato la Merkel: “Il destino dell’euro è nelle mani dell’Italia”.
E’ davvero così? Davvero le sorti dell’euro e dunque del mondo dipendono dall’innalzamento dell’età pensionabile degli italiani o dall’introduzione del pedaggio sulla Salerno – Reggio Calabria?
Vi ricordate gli ultimi giorni del governo Berlusconi? Il Time pubblicò un’ormai celebre copertina con la foto del Berlusca e un titolo che diceva: “L’uomo che sta dietro la più pericolosa economia del mondo”.
Trovai davvero divertente quella copertina, che riassumeva il pensiero di gran parte delle cancellerie mondiali. Mi divertì perché in quegli stessi giorni i giornali italiani erano in piena fibrillazione per il toto-sfiducia, e sembrò ad un certo punto che le sorti del governo dipendessero da Gabriella Carlucci.
Il sillogismo che ne risultava era il seguente: se le sorti del mondo dipendono dalla cacciata di Berlusconi e se la cacciata di Berlusconi dipende dal voto di Gabriella Carlucci, ergo le sorti del mondo dipendono da Gabriella Carlucci.
*****
A stupire, in tutto questo, è l’ipocrisia.
Il debito pubblico italiano è di circa un miliardo e 880 milioni di euro. In dollari fa più o meno 2 miliardi e mezzo.
In giro per il mondo ci sono 220 miliardi di miliardi di asset finanziari, 150 dei quali sotto forma di debiti (centocinquanta miliardi di miliardi).
Il prodotto interno lordo di tutti i paesi del pianeta supera di poco i 50 miliardi di miliardi di dollari (i dati sono tratti dall’Observer del 7 agosto 2011).
Se ci sono dei debiti ci saranno anche dei crediti, naturalmente, il che significa che se i creditori andassero tutti insieme all’incasso l’intero pianeta non basterebbe a ripagarli. Oltre alla Terra bisognerebbe dar loro Venere e Marte.
Rendo l’idea?
La sfida che oppone oggi gli abitanti della Terra (e di Venere e di Marte, se esistono) è quella di sgominare la banda di usurai che li tengono in ostaggio.
Nel 1850 Karl Marx scrisse “Le lotte di classe in Francia tra il 1848 e il 1850”. In un passo sembra di leggere una cronaca contemporanea: “Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale dell’arricchimento [dell’aristocrazia finanziaria]. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all'aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull'orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”.
Come sia stato possibile che questo accadesse, ovvero che gli Stati del pianeta divenissero ostaggio di una “aristocrazia finanziaria” che oggi non è più solo francese ma mondiale, è noto a tutti. Liberalizzazioni, eliminazione di ogni controllo sulle attività finanziarie, smantellamento sistematico dei diritti sindacali, tagli alla spesa pubblica, politica economica ceduta al mercato con delega in bianco.
Tutto questo ha significato la più colossale redistribuzione del reddito della storia dell’umanità [Vedi nota 1]. Una redistribuzione al contrario, però, che ha tolto ai poveri per dare ai ricchi.
Negli Stati uniti, per esempio, dove tutto è cominciato, tra il 1979 e il 2009 l’1% più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi del 275%. Il quinto più povero della popolazione del 18% (The New York Times del 26 ottobre 2011).
Per capire la differenza, tra il 1947 e il 1979 il quinto più povero della popolazione aveva visto crescere i propri redditi del 122%.
In Gran Bretagna, tra il 1999 e il 2009 (coi laburisti al governo) il decimo più ricco della popolazione ha visto aumentare la propria ricchezza del 37%. Quello più povero l’ha vista crollare del 12% (The Guardian del 7 novembre 2011).
Quel che è peggio, quando nel 2008 la favola del mercato-più-efficiente-degli-stati s’è rivelata clamorosamente falsa, i molto presunti discepoli di Adam Smith si sono trasformati in un secondo in difensori della mano pubblica. Purché la mano pubblica venisse in soccorso dei loro bilanci falsi.
Il risultato è stato l’esplosione del debito pubblico degli Stati.
Le cure suggerite dagli esperti?
Nuovi tagli, nuova riduzione del potere d’acquisto delle classi medie e medio basse, nuove privatizzazioni. Che inevitabilmente ridurranno le entrate degli Stati e di conseguenza li costringeranno a fare nuovi debiti. La redistribuzione al contrario continua. Come se nulla fosse successo.
Oggi si parla, in Italia, di aumentare ancora l’età pensionabile. Non entro nel merito, e tra un po’ vi dirò perché.
Non c’è un governo del pianeta che non si dica preoccupato per le sorti dei giovani. Questi poveri giovani, che fra 40 rischiano di non avere una pensione per colpa dell’egoismo dei loro nonni e dei loro genitori!
Sono gli stessi governi, badate bene, che quando si tratta di discutere del cambiamento climatico (come adesso, a Durban) dicono che in tempi di crisi è meglio pensare al presente. Che non si può ostacolare l’economia in nome di un incerto futuro.
Come sono strani, i governanti del mondo: si preoccupano che i loro nipoti abbiano una pensione ma non si curano affatto del pianeta che toccherà loro in sorte!
Per questo dico che non ho nessuna voglia di discutere se il sistema previdenziale italiano, dalla cui riforma sembra dipendano le sorti dell’economia mondiale, debba essere contributivo, ad angolo retto o con lo scappellamento a destra.
In un mondo così ingiusto, in cui la menzogna sistematica diventa verità, in cui la mano pubblica è moralmente accettabile solo se serve a salvare i ricchi, penso che ognuno debba difendere il proprio. Con le unghie e con i denti.
Quando la Merkel ha provato a suggerire l’introduzione di una tassa dello 0,01 per cento (ripeto: zero virgola zero uno per cento) i miliardari della City, qui a Londra, per poco non hanno minacciato di annegarsi nel Tamigi (o, meglio, di fare annegare i loro maggiordomi).
Se appena sfiori il loro portafogli perfino i miliardari protestano, perché non dovrebbero farlo gli operai o gli impiegati pubblici o gli arrotini o i raccoglitori abusivi di lumache?
L’interesse generale, il bene del paese, sono favole per i gonzi. Se ne potrà discutere quando parleremo di cose serie.
Fino a quel momento, per cortesia, risparmiateci le cavolate. Le sorti del mondo non dipendono affatto dall’Italia.
Né, tanto meno, da Gabriella Carlucci.

[Nota 1]
In un libro inglese “The Have and the Have Nots” (Quelli che hanno e quelli che non hanno), l’economista Branko Milanovic ha cercato di capire chi sia stata la persona più ricca mai vissuta al mondo. Come parametro ha usato il numero di connazionali il cui lavoro la persona in questione poteva o può comprare. Il risultato? L’uomo più ricco di sempre è il messicano, nonché nostro contemporaneo, Carlos Slim, che potrebbe comprarsi il lavoro di 400.000 suoi compatrioti. Il che lo fa 14 volte più ricco di Crasso e 4 volte più di Rockefeller.

giovedì 14 luglio 2011

C'era una volta la democrazia

Mi chiedo sempre più spesso quali siano le priorità dei mezzi d’informazione. L’altro giorno, ad esempio, ho letto un inquietante articolo del premio Nobel per l’economia Amartya Sen.
Vi si legge: “E’ oltremodo preoccupante che i pericoli per le sorti della democrazia, che s’intrufolano dalla porta di servizio delle priorità economiche, non stiano ricevendo le attenzioni che meriterebbero” (The Guardian del 23 giugno 2011).
L’articolo continua: “E’ una questione molto seria da affrontare, e riguarda il modo in cui le democrazie europee rischiano di essere minate dal peso spaventosamente elevato delle istituzioni finanziarie e delle agenzie di rating, che oggi tengono le redini della politica in alcune parti d’Europa”.
Più avanti: “Le diagnosi delle agenzie di rating sui problemi economici non sono la voce della verità che pretendono di essere. E’ bene ricordare che il ruolo di queste agenzie nel certificare la salute finanziaria delle istituzioni economiche alla vigilia della crisi del 2008 è stato così negativamente rilevante che il Congresso degli Stati uniti discusse seriamente se non fosse il caso di farle finire sotto processo”.
Amartya Sen si riferisce al peso spropositato delle società di rating nell’influenzare le scelte di politica-economica dei governi e dei parlamenti europei. Quelle stesse agenzie che nel 2008 continuavano ad attribuire la cosiddetta tripla A, ovvero il massimo della solidità possibile, a società che di lì a minuti sarebbero praticamente fallite (non fossero state salvate dalla mano pubblica).
L’articolo dell’economista indiano traeva spunto dalla crisi greca (quella italiana non era ancora scoppiata), contestando l’efficacia delle politiche di “blood, sweat and tears” (sangue, sudore e lacrime) che fino ad oggi sembrano le uniche ad essere state proposte dai governi europei.
Quello che più mi ha colpito dell’articolo di Sen è stato il silenzio che l’ha accompagnato. Qui, sui giornali inglesi (non so neppure se in Italia sia stato tradotto).
Il rischio che i paesi europei perdano la propria autonomia a vantaggio di società private che ne dettano le decisioni, a me sembrava un argomento di cui discutere. Se non parliamo di questo, del rischio che le nostre democrazie smettano di essere tali, su cos’altro dovremmo disquisire?
Facciamo un esempio, questa volta parlando di noi. Il referendum del 12 giugno scorso ha dimostrato che la stragrande maggioranza degli italiani non vede di buon occhio le privatizzazioni dei servizi pubblici. E’ questa la loro volontà, democraticamente espressa. E invece…
E invece accade che maggioranza e opposizione parlamentari, tutti insieme “responsabilmente”, per rispondere a manovre speculative sui mercati si apprestano a procedere nella direzione opposta. Ossia prevedendo ulteriori privatizzazioni.
In questa sede non discutiamo se le privatizzazioni siano o non siano giuste. Personalmente credo siano quasi sempre sbagliate, ma non è questo il punto.
Discutiamo di una cosa più importante: di democrazia.
Il tema del referendum è, come detto, un esempio. Com’è un esempio l’Italia. I cittadini di tanti, troppi paesi si trovano e si troveranno nella stessa situazione: a non avere più alcuna voce in capitolo sul proprio futuro.
Nel pieno della tempesta monetaria, quasi tutta la stampa italiana si è appellata ai parlamentari di ogni partito perché si dimostrino “responsabili” e approvino la legge finanziaria.
Perfetto. Ma responsabili dinanzi a chi? Agli analisti della Merrill Lynch o di Fitch? A finanzieri che vivono nell’iperuranio dei loro grattacieli di vetro e cemento? A Warren Buffet? Oppure a chi li ha eletti?
E, ancora, responsabili di che?
Da quello che si vede, di avere sancito che l’Italia non è più una democrazia. E che forse l’Europa intera ha smesso di esserlo. E’ o non è un tema che dovrebbe essere all’ordine del giorno della libera stampa?

sabato 9 luglio 2011

Vivere a Londra

Vivere a Londra mette le cose in una prospettiva diversa. Centinaia di migliaia di persone, dall'ultimo dei miserabili ai miliardari russi, vengono qui da ogni parte del mondo. E' una città di ineguaglianze sociali feroci, e nello stesso tempo accogliente. E' una città modernissima e insieme medievale: è il più grande paradiso fiscale del mondo, in cui il quartiere della City è un comune a parte, governato da un proprio sindaco i cui elettori sono le società finanziarie e le banche che vi hanno sede e che votano in base al numero dei propri dipendenti, come le corporazioni medioevali. Naturalmente, senza che i dipendenti abbiano voce in capitolo: sono i datori di lavoro che votano al loro posto. Vi sembra incredibile? Eppure è vero.
E' un posto in cui i ricchi non hanno bisogno di rubare, perché essendo una città che vive di finanza, il furto è stato legalizzato. Non hai bisogno di corrompere i primi ministri: se fanno i bravi, a fine mandato li inviti a tenere conferenze e li ricopri d'oro. Tony Blair, che è stato bravissimo, guadagna milioni di sterline l'anno.
Non hai bisogno di raccomandare sotto banco: qui la raccomandazione è legale. L'altro giorno David Cameron, il primo ministro, ha dichiarato d'aver aiutato il figlio del suo vicino a trovare un lavoro e nessuno s'è scandalizzato. E' sottinteso che, in quanto vicino di Cameron, di sicuro non viveva in un sobborgo popolare.
E' un città libera, certamente una delle più libere del mondo, ma ho visto con i miei occhi la polizia a cavallo caricare un gruppo di studenti (età media 16 anni) che protestavano pacificamente davanti al parlamento.
Volete che una città così, folle e cosmopolita, classista e democratica, questo strano miscuglio di razze e popoli, tollerante e perbenista, si stupisca di un piccolo siciliano che si chiude in una stanza a registrare al computer le proprie canzoni?

Adotta una canzone

So bene che facendolo infliggerò il colpo di grazia a quel poco che rimane della mia reputazione, ma ho deciso di rendere pubbliche le mie canzoni. Lo faccio per metterle a disposizione di chiunque le voglia utilizzare (a patto di rispettare alcune regolette che più avanti elencherò). Una premessa è d'obbligo: io non conosco la musica e quel che è peggio non so neppure cantare (come avrete modo di scoprire, temo).
Mi piacerebbe che qualcuno tra voi con "conoscenze" musicali possa usare i miei testi per farne delle vere canzoni. Usateli, se vi piacciono.
I motivetti che canticchio vanno infatti intesi come un semplice pretesto per mettere in video i testi (e anche perché mi diverto molto a farlo). Tra l'altro ignoro se per caso non li abbia involontariamente copiati da canzoni già esistenti (i motivetti, non i testi), dunque prendeteli con beneficio d'inventario.
Veniamo alle regole. I testi sono, come detto, messi a disposizione di chiunque li voglia utilizzare. E' tuttavia ovvio che nessuno potrà registrarli a suo nome (ed è la regola n. 1).
Regola n. 2: Chiunque utilizzi i testi per renderli pubblici, dovrà avere la mia espressa autorizzazione. Nel senso che la musica o l'interpretazione non dovranno tradire il contenuto dei testi.
Regola n. 3: Chiunque li utilizzi, dovrà ovviamente citarne l'autore.
Tutto qui.
Spero le mie "canzoni" vi piacciano com'è piaciuto a me scriverle.
S'intende che potete prendere i video e riprodurli a piacere.

Il proiettile vagante

Oh che bel bersaglio
Spero solo che non sbaglio
Farò del mio meglio
Se va male me la squaglio


Sono il proiettile vagante
Un assassino svolazzante
Son colpevole e impotente
Mero balistico accidente

Destino privo del mittente
A mosca cieca tra la gente
Sono la morte rimbalzante
Irrintracciabile e distante

Una cartuccia tra le tante
Uccido senz’una scusante
Son io l’immobile movente
D’un universo indifferente

Son l’assoluto contingente
Cui non gliene frega niente
Bimbi anziani o la gestante
O quell’anonimo passante

Sono il parto d’una mente
Disegnato da un sapiente
Vago il mondo da ignorante
Senza bussola o sestante

Andrò pallottola migrante
Non ho scopo né mandante
Ad ammazzare inutilmente
Qualche vittima innocente

Oh che bel bersaglio
Spero solo che non sbaglio
Farò del mio meglio
Se va male me la squaglio



Lu cravattaru

L’acqua lu vagna lu ventu l’asciuca
Pezzu di fangu di ‘na sancisuca
Sapiddu quantu mi fici paiari
Pi’ sti du sorti chi c’addummannavi

Lu machinuni c’arriva dda sutta
Si lu scurdau chi nasciu ni ‘na rutta
La sò signura si conza a cuntessa
Mancu s’avissi lu sticchiu a’ riversa

Essiri onesti sicuru ‘n cummeni
T’jinchi la testa di corra e di peni
Megghiu campari arrubbannu e futtenu
Farisi beddi d’estati e d’immennu

Pi’ ruvinari a nuautri cristiani
Ni manca sulu stu jurici ‘nfami
L’avi cu mia mi vulissi arristari
Picchì mi dici chi ‘n vogghiu parlari

Fussi pi’ iddu c’avissi a cuntari
Tutti li guai chi mi fici passari
Chi ci nni futti si po’ li paesani
Pi’ du’ risati c’abbagnanu ‘u pani

E mentri a mia m’invilena la vita
Chiddu s’accatta cravatti di sita
Tantu si sapi tra indulti e dinari
Tempu tri jiorna lu viru passiari

Di cravattara ci inchissi i galeri
Ma chi nni sannu di me mugghieri
Idda mi dissi lu fazzu pi’ tia
Ma si si sapi t’ammazzu ccu mia

Chissu la voli ora ritta ora torta
Ma tantu iddu camina cu ‘a scorta
Fazzu lu babbu e puru lu mutu
Pi’ nun passari pi’ babbu curnutu

Ma ti li dicu ora jò veramenti
Quannu rinasciu sarò dilinquenti
Passu mafiusu e figghiu di cagna
Lu ventu m’asciuca si l’acqua mi vagna

Nota: La vittima di un usuraio finisce davanti ad un magistrato. Ma la sua fiducia nella giustizia non è il massimo. Forse non ha tutti i torti, o forse il suo silenzio ha anche un'altra motivazione...