mercoledì 29 gennaio 2014

La Jeunesse Plaqué

Ero a Trapani per la processione dei Misteri, quando il Cristo ligneo si fermo davanti a un negozio d'abbigliamento. Il Cristo e il manichino dietro la vetrina rimasero per un po' a guardarsi...

Lunghe le gambe coi neri fusò
Vestita con cura a ricami dorati
Di là di quel vetro griffato Mirò
Guarda sfilare dei Cristi adorati

Portano uomini statue di legno
Lungo il viale di pini e boutique
Piangon le donne senza ritegno
Dietro la banda s’affila la claque

Una frangetta di plastica bionda
Pare sorpresa la finta mannequin
Della gran gente della baraonda
Di quei tamburi che fan a refrain

Frignan a cottimo nere le donne
Riavvoltolate in luttuosi foulard
Giunte le mani siccome madonne
Baciano il misero sporco clochard

Al rito con delega va l’assessore
Per uno straccione così démodé
Eppure l’invocano dicon signore
Magari facesse che dico un bidet

Pupazzo scolpito neppure di fino
Sorride beffarda maligna la miss
Sarò pure io come lui manichino
Però la miseria vedete che mise

Sarà come dicono re dei Cristiani
Sicuro però non è il figlio di Dior
Adesso io sì che ho capito i romani
Fu poco la croce per simile orror

Ad esser precisi non è per invidia
Del lumpen sfilare del proletariat
Colpa d’un paio di paria dell’India
A nuoto arrivati sul monte Ararat

Razzista non sono né i poveri odio
Adoro le chiese e dell’ostie lo stick
Il bianco talare dorato aspersorio
Il Papa per dire mi pare sia chic

Ma per la madonna davanti a moi
Con tutti quei posti perfetti per lor
Dovea trapassare dei poveri il roi
Val come dire il pezzente peggior

In serie mi fecero giù nella Cina
Per abiti in serie però blasonnée
Amara è la vita vissuta in vetrina
Eterna la faccia in eterno blasé

Potessi trovare una consolazione
Fra tutti quei giovani fuori dal suk
Di prefiche preti del capo barbone
E di tutto quel funebre lurido look

Sfilano i giovani senza guardare
Neppure di sbieco il feral défilé
Rapiti però dal mio bel personale
Lui certo perfetto per una soirée

Vivono fiacchi da veri bohémien
Ridon a scherno dei corvi devoti
Del loro fervore putente d’ancien
Dell’abracadabra di preci e di voti

Sprezzan la vita con far da dorée
Ma è finta la moda di falso cotone
Di basso dialetto di look delabrée
Di orribili scarpe in giallo limone

Han fasto riflesso nel loro adorare
Tra i tanti beati il fu Saint Laurent
Perfino se mai potranno comprare
I capi famosi mancando d’argent

Invero però sono affatto bassesse
Sognante Paris ed il lusso marqué
Si beve di birra la vacua jeunesse
Illusa dall’oro d’un mondo plaqué


domenica 19 gennaio 2014

Utnapishtim, o della vera storia del diluvio universale

Utnapishtim era babilonese. Il suo dio lo avvisò che stava arrivando il diluvio universale e gli consigliò caldamente di costruire una nave e di farci salire a bordo la sua famiglia e tutti gli animali possibili e immaginabili. Vi ricorda qualcosa?
Ebbene sì. La storia biblica di Noè non è altro che il remake di una precedente leggenda babilonese. Ma non è questo il punto.
Al British Museum c'è una sala con diverse tavolette d'argilla, su ognuna delle quali è riprodotta una differente versione del diluvio universale. Di fronte a quelle tavolette uno pensa a Noè. Lui se ne sta lì, tutto solo in mezzo al mare, convinto di essere l'unico superstite, quand'ecco che all'improvviso compare una vela all'orizzonte...

UTNAPISHTIM

Piove a dirotto
Piove a sfracello
Quando si dice
Piove come Dio comanda
Vai giù di sotto
Da tuo fratello
Fai il bravo Sem
C’è mamma che ti guarda

Oh mio Signore
Grazie dell’arca
Che tiene il mare
Col vento e la tempesta
Per ogni dove
La sola barca
Sopravvissuta
All’ira Tua funesta

Sumeri e ittiti
Tutti sott’acqua
Coi loro dèi
Mendaci di favella
Coi sodomiti
Ed ogni baldracca
E i mangiatori
Di coppa e mortadella

Dio dell’amore
Dio del dolore
Dammi l’amore
Dà loro il dolore


Mondati i mondi
Da ogni peccato
Rinascerà
La razza di Jahvè
Seme dei lombi
Che Tu hai salvato
Insieme al seme
E al nome di Noè

E non c’è giorno
Tra remi e scalmi
Che ci scordiamo
Di dire la Tua messa
Campane a stormo
Preghiere e salmi
Scrutando il mare
Per la terra promessa

Oh gaudio magno
La vedo in fondo
All’orizzonte
Tra i fumi della nebbia
Un mese a bagno
In dono il mondo
Senza un pagano
O un’orma sulla sabbia

Affondali inondali
Falli affogare
Gettali in fondo
Al buco più fondo


Però che strano
Pare si muova
Non son sicuro
Che sia il monte Ararat
Su Cam va piano
Sarà una prova
O l’ombra morta
Di qualche zigguràt

Più si avvicina
Più si fa netto
Lo vedo adesso
Il profilo delle vele
E la cabina
Ed il parapetto
E a sventolare
Il vessillo di Babele

Sarà un miraggio
Fata morgana
Bugiardi gli occhi
Non certo Tu Signore
Il lungo viaggio
Fatica vana
Se un’altra razza
Salvasse la sua prole

Ardili bruciali
Falli soffrire
Gettali in fondo
All’inferno più fondo


Oh sommo sgarbo
Dall’empio legno
Mi gridan contro
Insulti e contumelie
Senza riguardo
Del sacro segno
Oh sommo oltraggio
Mi chiamano infedele

La barba incolta
L’occhio sgranato
Scimmia la madre
Il padre un eresiarca
Da quella tolda
Che sia dannato
Mi urla che
La sua è la vera arca

Nome balordo
Stirpe maligna
Utnapishtim
E tanto se ne vanta
Tenace morbo
Erba gramigna
Mi faccio falce
Se vuoi la guerra santa

Squartali scalciali
Falli schiattare
Gettali in fondo
Allo squarcio più fondo


Mi chiudo gli occhi
Tappo le orecchie
Impugno a poppa
La barra del timone
Fuori gli stocchi
Mano alle picche
Sia la Tua prora
Divina lo sperone

Anche il pagano
Cerca lo scontro
Ci vuole morti
Carogna senza cuore
La spada in mano
Mi urla contro
O forse è l’eco
Ché son le mie parole

Non è il tuo dio
Che tanto canti
Per la sua forza
E per la sua saggezza
L’unico è il mio
Solo tra i tanti
Cui spetta dire
Chi è degno di salvezza

Dio dell’amore
Dio del dolore
Dammi l’amore
Dà loro il dolore


Gesù che botto
Coliamo a picco
Con tutti i figli
La vacca e la giraffa
E giù da sotto
Oh gran ripicco
Vedo che al danno
Si somma anche la beffa

Il solo vivo
L’unico al mondo
È appeso al tronco
D’un albero di mango
Ride giulivo
Si spulcia a fondo
Ma santo Dio
Perché l’orangotango?

Io non contesto
Il mio Creatore
E lieto annego
Se questo è il mio destin
Ma vi par giusto
Che il nuovo sole
In premio vada
A un seguace di Darwìn?

sabato 11 gennaio 2014

Quando il Fondo Monetario sbagliò i calcoli e nessuno se ne accorse

Nell’ottobre del 2012 il Fondo Monetario Internazionale pubblicò uno studio di tre paginette, all’interno del suo World Economic Outlook.
Lo firma in calce era di quelle importanti, ovvero del suo economista capo Olivier Blanchard.
Peccato che in pochi lo abbiano letto e che la grande stampa gli abbia dedicato, nel migliore dei casi, una distratta attenzione.
Certo, l’argomento era uno di quelli complicati che i giornalisti solitamente odiano perché sono difficili da riassumere in duemila caratteri.
Eppure era (ed è) un argomento su cui si poteva costruire una bella polemica. Una di quelle serie. Epocali.
Quelle tre paginette dicevano, in sostanza, che il Fondo Monetario Internazionale s’era sbagliato nel calcolare gli effetti dell’austerità sulla crescita economica mondiale.
Non certo robetta. Com’è possibile, mi chiedo, che non se ne sia discusso?
Io l’ho scoperto per caso. Ve lo racconto non per pedanteria, ma per dare un’idea di come la grande stampa spesso nasconda le cose più importanti.
Un giorno prendo la metropolitana e compro il nuovo numero della London Review of Books. È una rivista che si occupa per lo più di recensioni di libri. Prestigiosa ma di bassa tiratura. A Londra la trovate soltanto in poche librerie e in alcune stazioni della metro. Neppure WH Smith, la più diffusa catena di edicole, la vende.
C’è un articolo a firma di John Lanchester, un giornalista-scrittore inglese che qui gode di una certa fama. S’intitola “The Shit We’re In”, ossia “la merda in cui ci troviamo”.
Vi si parla della situazione economica della Gran Bretagna e a un certo punto viene citato questo nuovo studio del Fondo Monetario. Casco dalle nuvole. Ma di che cavolo sta parlando?
Mi reputo una persona mediamente informata. Leggo i giornali, come ogni bravo cittadino. Eppure non ne avevo mai sentito parlare.
Il punto di partenza è il cosiddetto “moltiplicatore”. In economia, il moltiplicatore è un coefficiente che serve a calcolare di quanto aumenta o diminuisce il prodotto interno lordo di un paese modificando una variabile macroeconomica.
Sembra complicato ma non lo è. Nell’articolo sulla London Review, John Lanchester lo spiega con l’esempio che vi riassumo: “Facciamo finta che ti capiti di trovare per strada 10 sterline. Le usi per comprare due paia di calzini di lana. Il tipo del negozio le usa a sua volta per comprare una bottiglia di vino, e il proprietario del negozio di vini per andare al cinema a vedere Le lacrime amare di Petra von Kant. Il proprietario del cinema ci compra della cioccolata, mentre il negoziante che gli ha venduto la cioccolata le usa per un biglietto dell’autobus. La compagnia di trasporti, infine, le deposita in banca”. Ebbene, quelle iniziali 10 sterline sono state spese sei volte, generando un’attività economica pari a 60 sterline. Ovvero, si sono “moltiplicate” per sei.
Torniamo adesso al Fondo Monetario Internazionale. In quello studio dell’ottobre 2012, la variabile presa in considerazione era la spesa pubblica.
L’FMI disse ai governi europei che avevano sbagliato tutti nel calcolare gli effetti negativi dell’austerità sul prodotto interno lordo dei loro rispettivi paesi (Ops!).
Avevano basato i propri calcoli su un moltiplicatore di 0,5. Ovvero, per ogni miliardo di euro “tagliati” dalla spesa pubblica, il PIL si sarebbe dovuto ridurre di 500 milioni.
In realtà, il moltiplicatore corretto avrebbe dovuto essere più alto, tra 0,9 e 1,7. Significa che quel famoso taglio da un miliardo di euro può ridurre il PIL di un paese fino a un miliardo e 700 milioni di euro.
Una bella differenza, non vi pare? Nonché un solido argomento per mettere in discussione le politiche d’austerità che stanno condannando l’Europa alla stagnazione permanente.
Ho cercato questa notizia che a me sembrava importante sulla stampa internazionale, e ho scoperto che ne avevano parlato Paul Krugman nel suo blog sul New York Times, un altro blogger sul Washington Post, il Financial Times in un paio di articoli relegati nella sezione “tecnica” del quotidiano. Nessuna prima pagina, nessun titolo di testa, nessun editoriale significativo. Nulla. Va da sé, nessun dibattito in nessun parlamento d’Europa.
Perché preoccuparsene, d’altra parte? Solo sulla carta lo scopo dell’austerità è quello di “salvare” gli Stati dalla catastrofe economica. Ciò che ha in realtà ottenuto, da quello che si è visto finora, è stato di proseguire nella politica di redistribuzione al contrario, dai più poveri ai più ricchi, che i governi europei perseguono ormai da decenni.
Volontariamente? Involontariamente? A giudicare dall’assordante silenzio con cui è stata accolta la “correzione” del Fondo Monetario, propenderei senz’altro per la prima risposta.

giovedì 9 gennaio 2014

Economisti. Se li conosci li eviti

Io d’economia non capisco niente, ma mi consola sapere che sono in buona compagnia. Gli economisti, per esempio. Pensate che loro ne capiscano?
Non è che siano degli idioti o degli incapaci. Alcuni sono perfino bravi. C’è solo che quando penso alla maggioranza degli economisti mi vengono in mente quei poveri giornalisti al seguito delle truppe americane in Iraq. Ve li ricordate? Li chiamavano “embedded”. Letteralmente, che dormono nello stesso letto (nel letto dei marines, nel caso in questione).
Mettetevi nei loro panni. Siete in un paese straniero e c’è una guerra. Dovete scrivere un articolo sul caporale dei marines che vi sta tirando fuori da un campo minato. Non so voi, ma piuttosto che scegliere a testa o croce dove mettere i piedi, io scriverei che ‘sto caporale mi pare John Wayne redivivo. Potete scommetterci che lo farei.
Adesso facciamo l’esempio di un economista che voglia diventare professore universitario. Ma un professore come si deve, intendo, non a Camerino o a Enna. Una cosa seria, tipo Harvard o Cambridge. Voi che fareste? Fareste una tesi di laurea sulle malefatte della finanza? Ma figurati!
Forse, se scrivete una roba assolutamente incomprensibile sulla geo-antropologia dell’ingiustizia sociale, forse e se vi va bene vi daranno una piccola cattedra in qualche minuscolo ateneo francese. Su al Nord, dove piove pure quando c’è il sole.
Ma Harvard o il MIT, beh, scordateveli.
Alberto Alesina, per esempio. Lui alla Harvard ci insegna, ed è un’autorità internazionale tra gli anti-keynesiani e i fondamentalisti dell’austerità. E’ sua (e di Silvia Ardagna) la teoria economica della cosiddetta “austerità espansiva”, secondo cui i tagli alla spesa pubblica e il consolidamento fiscale fanno crescere l’economia. Secondo voi ci ha azzeccato?
C’è un’altra famosa coppia d’economisti che sostiene la stessa tesi. Si chiamano Reinhart e Rogoff, e per anni sono stati citati ad esempio dai falchi del liberismo. Poi s’è scoperto che nei loro calcoli, fatti con l’Excel, erano contenuti dei macroscopici errori. Ma che importa? Il loro dovere l’avevano fatto: fornire una foglia di fico economico-scientifica a politiche economiche che erano dettate solamente dall’interesse dell’establishment finanziario di spartirsi le risorse pubbliche e di fare la cresta ai lavoratori.
Nel tempo libero, Alberto Alesina scrive puntuti editoriali per il Corriere della sera. Tipo quello pubblicato lo scorso 5 novembre. L’ho salvato sul mio desktop, perché trovo sia una delle cose più fantasmagoriche, strampalate e involontariamente divertenti che siano mai state scritte.
S’intitola “Forza vendete (e giù le tasse)”. Da economista come si deve l’articolo è farcito di numeri. Il debito pubblico italiano, dice Alesina, è al 133% del prodotto interno lordo, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ogni anno l’Italia paga, di soli interessi sul debito, 85 miliardi di euro, pari al 5,4% del PIL. E pure qui nulla quaestio.
Il bello arriva al capitolo soluzioni. O alziamo le tasse, sostiene Alesina, oppure ci vendiamo tutto. Tutto, ma proprio tutto: le quote azionarie che lo Stato possiede in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, Poste Italiane, Sace, ST Microelectronics e Cassa depositi e prestiti. Se ne potrebbero ricavare “60 miliardi di euro”, più altri 36 se ci mettiamo pure le Ferrovie.
Vendendo le aziende locali potremmo intascare ulteriori 30 miliardi, e addirittura 300 miliardi, sissignore trecento seguito da nove zeri, se ci sbarazziamo di tutti gli immobili (se nel calcolo siano compresi anche i tavoli e le sedie Alesina non lo dice, e per favore non fatelo avvicinare agli Uffizi e ai quadri di Raffaello!).
In totale, lo Stato italiano potrebbe raggranellare una bella sommetta, pari al 21% del PIL (il 6% dalla vendita delle quote azionarie, il 15% da quella degli immobili).
Ora, dico io, ma come fai a dire seriamente una cosa del genere? Perché Alesina è serissimo, altezzoso perfino. L’avete mai visto in fotografia? Ha una faccia da “come-ti-permetti-di-contraddirmi” e una chioma da direttore d’orchestra. Sara per questo che comanda i numeri a bacchetta.
Adora le addizioni ma avversa le sottrazioni. Somma quanto lo Stato guadagnerebbe vendendo tutte le sue quote azionarie ma non sottrae i dividendi che perderebbe dalla cessione (per esempio) dell’ENI.
Somma i guadagni delle vendite immobiliari ma, non specificando di quali immobili stia parlando, sorge il dubbio che non sottragga quanto bisognerà poi spendere in affitti per scuole, ospedali, uffici.
Ma anche prendendo per buone le sue cifre, vi pare serio che lo Stato debba sbarazzarsi di tutta la sua argenteria per pagare al massimo tre-quattro anni d’interessi sul debito pubblico? La sorte capitale non sarebbe neppure intaccata (ah già, a quella provvederebbe l’austerità espansiva. Campa cavallo!).
E poi, porcaccia miseria! C’era bisogno di una cattedra alla Harvard University per sapere che puoi pagare i debiti vendendoti la casa? L’usciere di un qualsiasi monte dei pegni sarebbe stato più che sufficiente!

mercoledì 1 gennaio 2014

Perché non possiamo non dirci capitalisti

Il testo base dell’economia di mercato, la sua Bibbia, risale al 1786. Fu scritto in Gran Bretagna da Joseph Townsend, nel pieno della cosiddetta prima rivoluzione industriale, appena diciotto anni dopo l’invenzione della macchina a vapore. Il titolo: “A Dissertation on the Poor Laws”, una dissertazione sulle leggi per i poveri.
Le Poor Laws erano, all’epoca, l’equivalente dell’odierno welfare state e imponevano alle parrocchie il sostentamento dei poveri.
Townsend scrisse che l’assistenza ai poveri rappresentava un problema per lo sviluppo economico delle industrie e delle campagne. Per lui, medico e scienziato, le diseguaglianze sociali non erano altro che una legge di natura che i governi avrebbero dovuto lasciare a loro stesse.
Proprio per questo sostenne, con una franchezza oggi inimmaginabile, che l’unico modo di far lavorare i poveri è metterli di fronte ad una e ad una sola alternativa: la morte per fame.
O lavori o muori. Le leggi assistenziali, diceva, ostacolano i datori di lavoro: perché un lavoratore dovrebbe impegnarsi a far bene il proprio lavoro se sa che in caso di licenziamento la parrocchia si occuperà di lui e della sua famiglia?
Ma le leggi assistenziali ostacolano anche i lavoratori onesti, quelli che si sbattono dalla mattina alla sera per mantenere i figli e non contestato i propri datori di lavoro. Se capita loro d’aver bisogno d’assistenza, ecco che scoprono che i pigri e gli sfaticati hanno già intascato tutti i sussidi disponibili.
Non sono io a dire che la “Dissertation on the Poor Laws” è il testo base del capitalismo. Lo scrisse Karl Polanyi, nel lontano 1944. Malgrado la terribile e sgrammaticata traduzione italiana, il suo “La grande trasformazione” (Einaudi) è un libro che tutti dovrebbero leggere.
M’è tornato in mente l’altro giorno, leggendo su Repubblica i risultati dell’ultimo sondaggio Demos curato da Ilvo Diamanti. Gli italiani, a quanto pare, preferiscono pagare meno tasse piuttosto che salvaguardare i servizi pubblici.
Appena otto fa, nel 2005, il 54% degli italiani riteneva che potenziare i servizi pubblici fosse più importante che ridurre le tasse. Oggi il 70% preferisce quest’ultima opzione.
Non è un fenomeno solo italiano. L’anno scorso, in Gran Bretagna, l’istituto Ipsos MORI scoprì che le giovani generazioni britanniche non credono più nel welfare state. Alla domanda: “la creazione del welfare state è uno dei risultati di cui la Gran Bretagna dovrebbe essere più orgogliosa?”, solo il 20% dei nati dopo il 1980 rispose di sì. Tra i nati prima del 1945, la percentuale schizzava al 70%.
Alla domanda: “il governo dovrebbe spendere di più nell’assistenza per i poveri, anche se ciò comporta aumentare le tasse?”, mentre il 40% per cento dei nati prima del 1945 ancora rispondeva di sì, tra i giovani la percentuale si riduceva al 20%.
Sono numeri terribili. Le giovani generazioni britanniche, abituate a lavori flessibili e all’insicurezza permanente, non conoscono altro. Lo stesso vale, con una decina d’anni di ritardo, per le giovani generazioni italiane.
E’ la guerra di tutti contro tutti, la sopravvivenza del più forte, la legge della giungla.
Lo Stato è un nemico, non più l’unico argine allo strapotere delle leggi del mercato. Decenni di conquiste sociali spazzate vie da una crisi che il capitalismo finanziario ha provocato senza pagarne le conseguenze. Anzi, scaricando la colpa sugli Stati.
Miliardari senza vergogna che chiedono ad alta voce altri tagli allo stato sociale, col consenso plaudente e ammirato delle loro vittime.
O lavori o muori. Caso mai non ve ne foste accorti, il capitalismo ha trionfato.