martedì 15 luglio 2008

Un sindaco con la puzza sotto... la finestra


Il primo cittadino di Sciacca, Mario Turturici, è di quelli che alla forma ci tengono. Cura l’abbigliamento (e fin qui tutti d’accordo: lo fa a spese sue). Va in giro con un’auto blu comprata subito dopo l’insediamento. Coi soldi che Rocco Forte avrebbe dovuto versare in oneri di urbanizzazione secondaria ha rifatto il prospetto del palazzo municipale.
Meno male che neppure i consiglieri comunali possono lamentarsi: hanno un’aula tutta nuova e perfino un tabellone luminoso per il voto elettronico che fa tanto Parlamento. Una cosa a cui il sindaco tiene tantissimo è il suo ufficio di gabinetto. Il mobilio se l’era già rifatto, adesso è il turno degli uffici veri e propri. Chiusi per ristrutturazione, sindaco e compagnia si sono trasferiti nell’ex collegio S. Anna, in via S. Caterina.

Poteva cercarsi un parcheggio come i comuni mortali? Poteva farsi i 30 metri a piedi che separano il municipio (dove assessori e consiglieri parcheggiano di straforo nell’atrio inferiore da poco restaurato) dalla nuova temporanea sede? Neanche per idea. E dire che sarebbe istruttivo girare per ore alla ricerca di un parcheggio in centro!
No. Lui s’è fatto riservare un parcheggio proprio accanto al portone del S. Anna. Ci sono delle belle strisce gialle e un cartello con su scritto: Riservato auto istituzionale. Qui, però, ha avuto un intoppo.
Come si vede nelle foto, il parcheggio era e rimane occupato da ben tre cassonetti dei rifiuti. Che i rapporti tra Mario Turturici (il sindaco) e la So.Ge.I.R. (la ditta che raccoglie i rifiuti) non fossero buoni, già si sapeva. Qui però si sfiora lo sfregio!
Per anni quei cassonetti sono stati proprio sotto la lapide che ricorda l’assassinio di Accursio Miraglia. Dopo anni di proteste alla fine furono spostati. Chi avrebbe mai pensato che, un giorno, quei cassonetti sarebbero finiti proprio nel parcheggio del sindaco?
La città si divide in due fazioni. Da una parte i cultori dell’antipolitica, che apprezzano il simbolismo della “munnizza” in uno spazio riservato alle istituzioni. Dall’altra i formalisti, che a questo spettacolo un po’ s’indignano.
E il sindaco? Di lui si dice che abbia un po’ la puzza sotto il naso. Forse era solo una diceria. Di sicuro, adesso, ce l’ha sotto la finestra.

lunedì 14 luglio 2008

Totò Cuffaro, paladino della Sicilia

Scrivono i giornali che Totò Cuffaro si sia buttato a capo fitto nel suo ruolo di parlamentare d’opposizione. “Difendo gli interessi della Sicilia – dice l’ex governatore – meglio dei deputati del PD”. Leggere questi articoli, è stato per me come un dejà vu. Vi ricordate di quando Umberto Bossi organizzò il raduno leghista sul Po? Ebbene, l’allora assessore regionale all’Agricoltura Totò Cuffaro annunciò di volersi recare a Comacchio con i prodotti tipici della nostra isola. Non so se poi davvero l’abbia fatto. Ricordo però che la cosa m’ispirò una storiella. Sono andato a ripescarla. L’idea che proprio Cuffaro s’ergesse a difensore della Sicilia mi faceva ridere già allora. Figuratevi oggi.
Ecco la storiella.
Degno di cavalcare accanto a Ettore, Enea e Lancillotto, il nostro più valente condottiero si è alfine gettato nella mischia. Totò Cuffaro, incurante delle minacce che i cavalieri di Alberto da Giussano gli lanciano dal loro tristo carroccio, sta già schierando i suoi fedeli a difesa delle insalubri acque di Comacchio.
Gli uomini, al principio, arretrano dinanzi allo schiumare dell’acqua. Sinistre affiorano dalla mefitica palude le teste di mille e mille serpi, quasi un’idra immensa si apprestasse ad emergere.
Totò Cuffaro è il solo a non indietreggiare. Roteando la spada si getta a capofitto nel mezzo delle acque ribollenti, e fa strage di serpi.
“Picciotti, anguille sono” è il suo trionfante grido si vittoria, al quale rispondono le urla di giubilo dei cavalieri, che subito si apprestano ad apparecchiare la mensa.
Ben presto le braci sono pronte, le anguille arrostite. I senza Dio locali ridacchiano ma si mantengono a distanza, ché hanno visto Totò Cuffaro in azione e temono la sua furia leggendaria.
“Perché ridete, oh senza Dio?” urla il cavaliere.
“Perché arrostite le anguille come se fossero salsicce” rispondono quelli, sempre a debita distanza ma sempre altresì piegati in due dalle risate.
Tanto sprezzante del pericolo quanto veloce nel battagliare in arguzia, Totò Cuffaro reagisce da par suo.
Con gesti rassicuranti invita i senza Dio ad avvicinarsi alla sua mensa.
“Prendete codesti frutti della nostra terra e del nostro lavoro” dice, porgendo ai senza Dio bigonce stracolme di fichi d’India.
“Mangiate pure” dice ad alta voce, perché tutti possano sentirlo. I senza Dio si gettano sulle bigonce e imprudenti addentano quei frutti.
Non l’avessero mai fatto! Ignari delle fiere spine che difendono la dolcezza del frutto, i barbari padani si contorcono dal dolore e corrono verso l’acqua a distaccar gli aculei dalla proprie lingue.
E’ la volta dei nostri cavalieri di ridere. Totò Cuffaro, tanto arguto quanto saggio, però li rimbrotta: “Mai bearsi dell’ignoranza che altri hanno delle nostre abitudini: i popoli sono fatti per vivere assieme e per scambiarsi esperienze, culture e appalti”.
Appresa la lezione e commossi da quelle parole, i senza Dio padani acclamano il nostro fiero cavaliere, e subito lo proclamano loro difensore.
Questo è il racconto di come Totò Cuffaro sconfisse le truppe di Alberto da Giussano, assai superiori di numero. Perché è bene ricordare che dove non possono il coraggio e la forza bruta riusciranno un cuore puro e i più degni argomenti.

domenica 13 luglio 2008

La mafia senza ricambi

La mafia sembra davvero alle corde. L’ennesima dimostrazione viene dall’operazione Scacco Matto. Molti dei comuni interessati hanno una lunga “tradizione” in fatto di onorata società. Ribera, Burgio, Sambuca di Sicilia, in generale il territorio del Belice. Paesi in cui storicamente sono esistite tutte le condizioni perché la mafia vi piantasse le radici: un’economia prevalentemente agricola, il latifondo sopravvissuto fino a pochi decenni fa.
Eppure basta dare un’occhiata ai curricula di alcuni degli indagati per accorgersi di come il lago in cui cosa nostra era abituata a sguazzare si sia ridotto ad uno stagno. I Capizzi di Ribera, loro, sono sempre gli stessi. Di padre in figlio, di nonno in nipote, inquirenti e investigatori sono costretti ad usare le date di nascita per distinguerli: Paolo Capizzi classe 1968, Paolo Capizzi classe 1940. In un’epoca in cui la famiglia tradizionale sembra in crisi, loro preservano usi e costumi d’altri tempi. Ma sono ormai una logora eccezione.
Gino Guzzo di Montevago, il presunto capo mandamento, era stato già coinvolto nel processo Avana, che colpì la cosca di Sciacca e dintorni nel 1993. Quindici anni fa. Idem per il capo mafia di Sciacca, Accursio Dimino. I due, Guzzo e Dimino, erano stati compagni di scuola. A Montevago il capomafia era Pino La Rocca, che però era anziano, non conosceva molti giovani e non riusciva a reclutare nessuno. Ci pensò Dimino a presentargli Guzzo: “E’ un amico, ti puoi fidare”. Fu così che Gino Guzzo divenne il guardiaspalle di Pino La Rocca.
Cosa nostra era ancora attraente, poteva ancora reclutare sangue fresco. Oggi non è più così. Al massimo, si ricorre a qualche parente. Con dei curiosi ribaltamenti. Gino Guzzo, anni fa, fu l’autista di Pino La Rocca. Oggi è lui ad avere come autista un altro Giuseppe La Rocca, nipote di quell’altro.
A Burgio, siamo di nuovo ai Davilla e a Giovanni Derelitto, per giunta suocero di uno dei Capizzi. Ancora loro. Sempre loro.
Non è un fenomeno che riguarda soltanto questo versante dell’agrigentino. Per decenni, Siculiana è stata ritenuta uno dei centri mafiosi più importanti. Patria dei Caruana, boss internazionali del narcotraffico. Poi si scoprì, due-tre anni fa, che da quelle parti i due uomini d’onore rimasti non riuscivano più a mettere in piedi una cosca. Per farlo bisogna essere almeno in tre. Dovettero farsi prestare un mafioso da un comune vicino.
Perfino “lui”, Matteo Messina Denaro, sembra in difficoltà. Lo scrisse di suo pugno a Bernardo Provenzano. Stava in un pizzino: “Qui stanno arrestando perfino le sedie”.
Un segno evidente della crisi di vocazione di cosa nostra, della sua mancanza di appeal, dell’incapacità di trovare nuove leve, viene proprio dall’aria nuova che si respira tra gli imprenditori. Loro, meglio di altri, sanno che i mafiosi sono sempre gli stessi. A Sciacca, tanto per dire, con gli uomini di Di Gangi in galera furono costretti a ricorrere ad un signore di 80 anni.
La vera grande paura di chi era costretto a denunciare cosa nostra stava nella proverbiale memoria lunga dell’associazione. Denunci un mafioso, i carabinieri lo arrestano ma fuori dal carcere ne rimangono a decine. Pronti a farti la pelle. Oggi non è più così. E’ più difficile che un Accursio Dimino trovi un compagno di scuola da reclutare.
Denunciate, gente, denunciate. Cosa nostra è alla frutta. Poche altre volte è stata in crisi come adesso. E’ il momento di approfittarne.

venerdì 11 luglio 2008

Storie di mafia da provincia profonda

“Quando gli imprenditori decidono di parlare, lo fanno per ore”. Sono le nove di sera, e un investigatore ha appena finito di ascoltare le testimonianze di diversi imprenditori del versante occidentale della provincia di Agrigento. Sente aria di svolta. Anche qui, nella Sicilia profonda. Pochi giorni prima, 4 di luglio, i Carabinieri di Sciacca e Agrigento avevano letteralmente decapitato almeno un paio di mandamenti mafiosi: 34 tra presunti uomini d’onore e loro fiancheggiatori erano finiti in galera. Non a caso l’operazione è stata denominata “Scacco matto”. Tre i magistrati impegnati nell’inchiesta: i Pm della DDA di Palermo Gianfranco Scarfò e Rita Fulantelli e il sostituto procuratore di Sciacca Salvatore Vella. L’ipotesi accusatoria, sostenuta da quasi tre anni di intercettazioni telefoniche e ambientali, descrive un capillare controllo dei subappalti nel settore delle opere pubbliche e anche in qualche grande investimento privato: l’acquedotto Favara di Burgio, diversi lavori stradali tra Sciacca e Menfi, il golf resort Verdura di sir Rocco Forte e altri investimenti turistici. Ipotesi che adesso trova conferme nelle deposizioni degli imprenditori. Non di tutti. Ci sono pure quelli che, sostiene l’investigatore, “negano l’evidenza”. Altri però confermano. E’ una novità assoluta, per questo versante dell’agrigentino. Nel capoluogo, prima e dopo l’arresto dell’ex capo mafia e oggi collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati, molti imprenditori avevano già deciso di denunciare i propri estortori. In prima fila, il presidente provinciale di Confindustria Giuseppe Catanzaro. La ribellione alla schiavitù del pizzo sfiora adesso il territorio del nuovo boss dei boss. Sciacca, il centro più importante, è a 30 chilometri da Castelvetrano. Il paese natale di Matteo Messina Denaro. Menfi, 11 mila abitanti ed ettari su ettari di magnifiche vigne, è ancora più vicino. E’ l’ultimo comune della provincia d’Agrigento. Di là del fiume Belice comincia quella di Trapani. Il “regno” di Messina Denaro. E’ una mafia che ancora fa paura. Molti dei presunti mafiosi colpiti dalle ordinanze di custodia hanno pedigree criminali di tutto rispetto. A Sciacca, per esempio, il capo mafia sarebbe Accursio Dimino. Negli anni ’80, quando ancora non si sapeva del suo ruolo in cosa nostra (non “ufficialmente”, almeno) fu addirittura socio di Massimo Maria Berruti in una ditta per la lavorazione della plastica con sede a Ribera. Berruti non era ancora parlamentare ma era già un uomo Fininvest vicinissimo a Silvio Berlusconi. Dimino è stato pazientemente in carcere più di dieci anni e vanta una vecchia collaborazione con Messina Denaro. E’ insomma una persona affidabile. Il super-boss lo stima. Parla bene di lui in un “pizzino” trovato nel casolare di Montagna dei Cavalli, dove fu arrestato Bernardo Provenzano. Appena uscito dal carcere gli offrono di fare il capo mandamento. Lui rifiuta. A quanto sembra, però, non rinuncia a riscuotere il pizzo. Al suo posto viene nominato Gino Guzzo. E’ di Montevago, in piena valle del Belice. Anche Gino Guzzo è da poco uscito dal carcere. E’ affidabile. Nelle intercettazioni lo chiamano il “dottore”, per via della laurea in Agraria. Il suo sogno è diventare massone. Si danna l’anima per riuscirci. Da sempre è a sua volta vicino a Messina Denaro. Gli uomini d’onore li chiama “cristiani”. E’ un capo mafia all’antica: posato, riflessivo. A chi gli chiede d’intervenire energicamente sugli imprenditori che non vogliono pagare, cristianamente risponde: “La vita è sacra”.
Tra gli arrestati c’è Mario Davilla di Burgio. A lui lo chiamavano il Cavaliere. Forse perché era un cavaliere templare, una sorta di loggia para-massonica. Nulla a che vedere, s’intende, con la massoneria ufficiale. Un tempo gestiva un impianto per la produzione del calcestruzzo tra Burgio e Ribera. Poi lo cedette a Gino Smeraglia di Ribera e andò a lavorare in Emilia ai cantieri dell’alta velocità. Tre anni fa l’avevano già arrestato per una serie di bancarotte fraudolente. Un’inchiesta della Guardia di Finanza denominata Clink Oil.
Una storia nota, quella del passaggio dell’impianto industriale da Davilla a Gino Smeraglia. Ciò tuttavia non aveva impedito a Smeraglia di lavorare in subappalto al golf resort Verdura di sir Rocco Forte. Malgrado il cosiddetto protocollo della legalità. Sottoscritto dall’impresa, dalla Prefettura d’Agrigento e dal Comune di Sciacca. Smeraglia lavorava senza problemi. Sembra che i suoi mezzi siano ancora in cantiere. Malgrado il provvedimento di fermo che lo ha colpito il 4 luglio scorso.
Ci sono stati diversi atti intimidatori, in Contrada Verdura. Dentro al cantiere di sir Rocco. Non sembra però che in tre anni d’intercettazioni se ne sia mai fatto cenno. E in effetti, se sono vere le ipotesi dell’accusa, le ditte vicine a cosa nostra già ci lavoravano. Perché avrebbero dovuto creare problemi, attirare l’attenzione degli inquirenti? E’ una nostra ipotesi, ma è probabile che quegli atti abbiano una diversa matrice.
Gino Smeraglia non è l’unico tra i fermati che lavorava in contrada Verdura. Anche il riberese Nino Montalbano stava lì. Faceva il guardiano, malgrado la parentela con i Capizzi. Sempre loro: i Capizzi. Famiglia d’antica tradizione mafiosa. Uno va uno viene dal carcere. Da generazioni.
Strane persone, i Capizzi. Temuti da tutti, fuori e dentro cosa nostra. Malgrado il loro peso specifico (sono tanti e quasi tutti nel giro) non sono mai riusciti a fare carriera. Quando c’è da nominare un capo mandamento, tocca sempre a qualcun altro. Fu così negli anni ’80, quando venne scelto l’allora capo mafia di Sciacca, Salvatore Di Gangi. Uno che non era neppure nato qui, veniva dalle Madonie. Adesso sono stati scavalcati da un signore che non ha certo il loro curriculum: tale Salvatore Imbornone da Lucca Sicula.
Non si fidano dei Capizzi. Neppure in cosa nostra. Un giorno l’imprenditore Campo di Menfi, tra i fermati, dà ai Capizzi 42 mila euro. Vuole fornire il calcestruzzo alla ditta che sta realizzando lavori stradali sulla Sciacca-Menfi. I Capizzi glielo garantiscono. Lui paga ma non ottiene nulla. Pare che quelli della ditta si fossere già accordati a Palermo. Il calcestruzzo se lo fanno da soli. Campo rivuole indietro i soldi, i Capizzi non ne vogliono sapere. Si manda qualcuno a mediare. E dire che non avevano neppure titolo per intervenire. I lavori non ricadevano nel loro territorio, perché allora s’erano intascati i soldi?
Sono fatti così, i Capizzi. Nessuno li ama, tutti li temono. Non possiedono qualità diplomatiche. Non guardano in faccia nessuno. Pretesero il pizzo perfino da Giuseppe Grigoli, quello della Despar di Castelvetrano. Benché Messina Denaro in persona si affannasse a far sapere loro che Grigoli era cosa sua. Chiedere il pizzo a Grigoli era come chiederlo a lui personalmente. Ma vacci a ragionare, con i Capizzi. Teste dure, teste da riberesi.
Per fortuna (almeno questo), sembra che le richieste di pizzo si limitassero alle grandi opere. Non è di moda, nei piccoli centri, l’estorsione porta a porta. E’ difficile, ci si conosce tutti. Ogni tanto, però, qualcuno ci provava. Per esempio il menfitano Vito Bucceri. Vuole fare le scarpe al capo mafia del paese, Antonino Pumilia. Lo ritiene un debole. Propone un diverso programma di governo. Funziona così: anche i mafiosi che aspirano ad una promozione fanno promesse da campagna elettorale. “Quando comanderò io, faremo il porta a porta. E chi non paga chiude”. Gli è andata male.
Quando però erano in ballo gli appalti più consistenti, le estorsioni non si fermavano neppure davanti all’amicizia. Né di fronte al grottesco. Un giorno, le microspie sull’automobile di un mafioso registrano in diretta un atto intimidatorio. C’è dà dar fuoco all’auto di un imprenditore. Viene incaricato uno che però è un suo amico. Suo fratello ha battezzato il figlio dell’imprenditore. Perde tempo, rinvia finché può. Alla fine è costretto. Fatto il “lavoro”, l’amico che gli fa da autista lo lascia e carica la moglie. La microspia continua a registrare. Il mafioso e la sua inconsapevole signora passano accanto al luogo dell’attentato. “Cos’è sta confusione?” chiede la moglie. Il marito annusa l’aria. Forse vuole far colpo. Risponde: “Dall’odore, sembra una macchina che brucia”.

sabato 5 luglio 2008

La sindrome di Paperopoli

Chi vive in provincia (e in Italia quasi tutti viviamo in provincia), pensa d'essere al centro del mondo. Una deformazione che diventa ancora più grave se la provincia è lontana da tutto. Come quella in cui vivo io, in Sicilia. Non si hanno riferimenti; le occasioni per confrontarsi con punti di vista diversi sono molto rare; spesso si finisce col confinarsi in una piccola cerchia di amici dove tutti, chi più chi meno, la pensano allo stesso modo.
Quel che è peggio, si finisce col credere che ciò che ci circonda, il piccolo mare nel quale "naufraghiamo", sia il mondo. L'unico dei mondi possibili, se non proprio il migliore. Non per scelta e neppure per una malintesa forma d'arroganza. Semplicemente perché non si conosce altro.
Così, ad esempio, si finisce per credere onnipotenti i piccoli boss di paese. Buona parte del potere della mafia deriva dagli orizzonti ristretti di chi ne subisce l'influenza. Se don Pinco Pallino è tanto potente nel mio paesello, e se il mio paesello è tutto il mondo che conosco, ergo la potenza di don Pinco Pallino deve per forza estendersi al mondo intero.
Vale per i mafiosi, vale altresì per ogni categoria di persone. E' molto facile, in provincia, diventare "storici", "scrittori", "artisti", "giornalisti" e così via. Basta dire di esserlo. Si scrive un qualsiasi libro di storia locale, anche infarcito di errori e inesattezze, e subito si viene classificati come storici. Ci si crede storici, e si va in giro a testa alta, disprezzando l'altrui ignoranza.
La provincia è piena di pittori da due soldi, di poeti da strapazzo, di scrittori del cavolo che si bastano da soli. Che si accontentano della piccola fama che il paesello tributa loro. Perché il paesello è il mondo. Io la chiamo la sindrome di Paperopoli.
C'è tutto, a Paperopoli. Ogni tipo d'industria, a dispetto della divisione internazionale del lavoro. Ogni tipo d'ambiente naturale: nevica oppure fa un caldo boia, a seconda delle esigenze narrative. Di dov'è l'uomo più ricco del mondo? Di Paperopoli. E il secondo uomo più ricco del mondo? Di Paperopoli, di dove se no? E il più geniale inventore di tutti i tempi? Non è forse anch'egli di Paperopoli?
Ecco spiegato il nome di questo blog. Vivo in provincia. Scrivo un blog. Ergo, sono il migliore autore di blog di tutta quanta Paperopoli. Volevo dire, del mondo.