“Quando gli imprenditori decidono di parlare, lo fanno per ore”. Sono le nove di sera, e un investigatore ha appena finito di ascoltare le testimonianze di diversi imprenditori del versante occidentale della provincia di Agrigento. Sente aria di svolta. Anche qui, nella Sicilia profonda. Pochi giorni prima, 4 di luglio, i Carabinieri di Sciacca e Agrigento avevano letteralmente decapitato almeno un paio di mandamenti mafiosi: 34 tra presunti uomini d’onore e loro fiancheggiatori erano finiti in galera. Non a caso l’operazione è stata denominata “Scacco matto”. Tre i magistrati impegnati nell’inchiesta: i Pm della DDA di Palermo Gianfranco Scarfò e Rita Fulantelli e il sostituto procuratore di Sciacca Salvatore Vella. L’ipotesi accusatoria, sostenuta da quasi tre anni di intercettazioni telefoniche e ambientali, descrive un capillare controllo dei subappalti nel settore delle opere pubbliche e anche in qualche grande investimento privato: l’acquedotto Favara di Burgio, diversi lavori stradali tra Sciacca e Menfi, il golf resort Verdura di sir Rocco Forte e altri investimenti turistici. Ipotesi che adesso trova conferme nelle deposizioni degli imprenditori. Non di tutti. Ci sono pure quelli che, sostiene l’investigatore, “negano l’evidenza”. Altri però confermano. E’ una novità assoluta, per questo versante dell’agrigentino. Nel capoluogo, prima e dopo l’arresto dell’ex capo mafia e oggi collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati, molti imprenditori avevano già deciso di denunciare i propri estortori. In prima fila, il presidente provinciale di Confindustria Giuseppe Catanzaro. La ribellione alla schiavitù del pizzo sfiora adesso il territorio del nuovo boss dei boss. Sciacca, il centro più importante, è a 30 chilometri da Castelvetrano. Il paese natale di Matteo Messina Denaro. Menfi, 11 mila abitanti ed ettari su ettari di magnifiche vigne, è ancora più vicino. E’ l’ultimo comune della provincia d’Agrigento. Di là del fiume Belice comincia quella di Trapani. Il “regno” di Messina Denaro. E’ una mafia che ancora fa paura. Molti dei presunti mafiosi colpiti dalle ordinanze di custodia hanno pedigree criminali di tutto rispetto. A Sciacca, per esempio, il capo mafia sarebbe Accursio Dimino. Negli anni ’80, quando ancora non si sapeva del suo ruolo in cosa nostra (non “ufficialmente”, almeno) fu addirittura socio di Massimo Maria Berruti in una ditta per la lavorazione della plastica con sede a Ribera. Berruti non era ancora parlamentare ma era già un uomo Fininvest vicinissimo a Silvio Berlusconi. Dimino è stato pazientemente in carcere più di dieci anni e vanta una vecchia collaborazione con Messina Denaro. E’ insomma una persona affidabile. Il super-boss lo stima. Parla bene di lui in un “pizzino” trovato nel casolare di Montagna dei Cavalli, dove fu arrestato Bernardo Provenzano. Appena uscito dal carcere gli offrono di fare il capo mandamento. Lui rifiuta. A quanto sembra, però, non rinuncia a riscuotere il pizzo. Al suo posto viene nominato Gino Guzzo. E’ di Montevago, in piena valle del Belice. Anche Gino Guzzo è da poco uscito dal carcere. E’ affidabile. Nelle intercettazioni lo chiamano il “dottore”, per via della laurea in Agraria. Il suo sogno è diventare massone. Si danna l’anima per riuscirci. Da sempre è a sua volta vicino a Messina Denaro. Gli uomini d’onore li chiama “cristiani”. E’ un capo mafia all’antica: posato, riflessivo. A chi gli chiede d’intervenire energicamente sugli imprenditori che non vogliono pagare, cristianamente risponde: “La vita è sacra”.
Tra gli arrestati c’è Mario Davilla di Burgio. A lui lo chiamavano il Cavaliere. Forse perché era un cavaliere templare, una sorta di loggia para-massonica. Nulla a che vedere, s’intende, con la massoneria ufficiale. Un tempo gestiva un impianto per la produzione del calcestruzzo tra Burgio e Ribera. Poi lo cedette a Gino Smeraglia di Ribera e andò a lavorare in Emilia ai cantieri dell’alta velocità. Tre anni fa l’avevano già arrestato per una serie di bancarotte fraudolente. Un’inchiesta della Guardia di Finanza denominata Clink Oil.
Una storia nota, quella del passaggio dell’impianto industriale da Davilla a Gino Smeraglia. Ciò tuttavia non aveva impedito a Smeraglia di lavorare in subappalto al golf resort Verdura di sir Rocco Forte. Malgrado il cosiddetto protocollo della legalità. Sottoscritto dall’impresa, dalla Prefettura d’Agrigento e dal Comune di Sciacca. Smeraglia lavorava senza problemi. Sembra che i suoi mezzi siano ancora in cantiere. Malgrado il provvedimento di fermo che lo ha colpito il 4 luglio scorso.
Ci sono stati diversi atti intimidatori, in Contrada Verdura. Dentro al cantiere di sir Rocco. Non sembra però che in tre anni d’intercettazioni se ne sia mai fatto cenno. E in effetti, se sono vere le ipotesi dell’accusa, le ditte vicine a cosa nostra già ci lavoravano. Perché avrebbero dovuto creare problemi, attirare l’attenzione degli inquirenti? E’ una nostra ipotesi, ma è probabile che quegli atti abbiano una diversa matrice.
Gino Smeraglia non è l’unico tra i fermati che lavorava in contrada Verdura. Anche il riberese Nino Montalbano stava lì. Faceva il guardiano, malgrado la parentela con i Capizzi. Sempre loro: i Capizzi. Famiglia d’antica tradizione mafiosa. Uno va uno viene dal carcere. Da generazioni.
Strane persone, i Capizzi. Temuti da tutti, fuori e dentro cosa nostra. Malgrado il loro peso specifico (sono tanti e quasi tutti nel giro) non sono mai riusciti a fare carriera. Quando c’è da nominare un capo mandamento, tocca sempre a qualcun altro. Fu così negli anni ’80, quando venne scelto l’allora capo mafia di Sciacca, Salvatore Di Gangi. Uno che non era neppure nato qui, veniva dalle Madonie. Adesso sono stati scavalcati da un signore che non ha certo il loro curriculum: tale Salvatore Imbornone da Lucca Sicula.
Non si fidano dei Capizzi. Neppure in cosa nostra. Un giorno l’imprenditore Campo di Menfi, tra i fermati, dà ai Capizzi 42 mila euro. Vuole fornire il calcestruzzo alla ditta che sta realizzando lavori stradali sulla Sciacca-Menfi. I Capizzi glielo garantiscono. Lui paga ma non ottiene nulla. Pare che quelli della ditta si fossere già accordati a Palermo. Il calcestruzzo se lo fanno da soli. Campo rivuole indietro i soldi, i Capizzi non ne vogliono sapere. Si manda qualcuno a mediare. E dire che non avevano neppure titolo per intervenire. I lavori non ricadevano nel loro territorio, perché allora s’erano intascati i soldi?
Sono fatti così, i Capizzi. Nessuno li ama, tutti li temono. Non possiedono qualità diplomatiche. Non guardano in faccia nessuno. Pretesero il pizzo perfino da Giuseppe Grigoli, quello della Despar di Castelvetrano. Benché Messina Denaro in persona si affannasse a far sapere loro che Grigoli era cosa sua. Chiedere il pizzo a Grigoli era come chiederlo a lui personalmente. Ma vacci a ragionare, con i Capizzi. Teste dure, teste da riberesi.
Per fortuna (almeno questo), sembra che le richieste di pizzo si limitassero alle grandi opere. Non è di moda, nei piccoli centri, l’estorsione porta a porta. E’ difficile, ci si conosce tutti. Ogni tanto, però, qualcuno ci provava. Per esempio il menfitano Vito Bucceri. Vuole fare le scarpe al capo mafia del paese, Antonino Pumilia. Lo ritiene un debole. Propone un diverso programma di governo. Funziona così: anche i mafiosi che aspirano ad una promozione fanno promesse da campagna elettorale. “Quando comanderò io, faremo il porta a porta. E chi non paga chiude”. Gli è andata male.
Quando però erano in ballo gli appalti più consistenti, le estorsioni non si fermavano neppure davanti all’amicizia. Né di fronte al grottesco. Un giorno, le microspie sull’automobile di un mafioso registrano in diretta un atto intimidatorio. C’è dà dar fuoco all’auto di un imprenditore. Viene incaricato uno che però è un suo amico. Suo fratello ha battezzato il figlio dell’imprenditore. Perde tempo, rinvia finché può. Alla fine è costretto. Fatto il “lavoro”, l’amico che gli fa da autista lo lascia e carica la moglie. La microspia continua a registrare. Il mafioso e la sua inconsapevole signora passano accanto al luogo dell’attentato. “Cos’è sta confusione?” chiede la moglie. Il marito annusa l’aria. Forse vuole far colpo. Risponde: “Dall’odore, sembra una macchina che brucia”.
3 commenti:
Ciao Albè, non sei mai scontato. Un abbraccio. Massimo.
Ben tornato, Alberto.
Hai notato che tutti i post che parlano di mafia e politica hanno pochissimi commenti? Voglio essere ottimista e voglio pensare che "chi tace acconsente". O forse, come diceva Danilo Dolci, "chi tace è complice" ?
Ben tornato.
Complimenti per il blog! 6 uno dei pochi giornalisti senza peli sulla lingua mai di parte e molto obiettivo! io ho già aggiunto il tuo blog nel mio che è www.gianlucafiscoblogspot.com Aggiungimi!!!
Posta un commento