La mafia sembra davvero alle corde. L’ennesima dimostrazione viene dall’operazione Scacco Matto. Molti dei comuni interessati hanno una lunga “tradizione” in fatto di onorata società. Ribera, Burgio, Sambuca di Sicilia, in generale il territorio del Belice. Paesi in cui storicamente sono esistite tutte le condizioni perché la mafia vi piantasse le radici: un’economia prevalentemente agricola, il latifondo sopravvissuto fino a pochi decenni fa.
Eppure basta dare un’occhiata ai curricula di alcuni degli indagati per accorgersi di come il lago in cui cosa nostra era abituata a sguazzare si sia ridotto ad uno stagno. I Capizzi di Ribera, loro, sono sempre gli stessi. Di padre in figlio, di nonno in nipote, inquirenti e investigatori sono costretti ad usare le date di nascita per distinguerli: Paolo Capizzi classe 1968, Paolo Capizzi classe 1940. In un’epoca in cui la famiglia tradizionale sembra in crisi, loro preservano usi e costumi d’altri tempi. Ma sono ormai una logora eccezione.
Gino Guzzo di Montevago, il presunto capo mandamento, era stato già coinvolto nel processo Avana, che colpì la cosca di Sciacca e dintorni nel 1993. Quindici anni fa. Idem per il capo mafia di Sciacca, Accursio Dimino. I due, Guzzo e Dimino, erano stati compagni di scuola. A Montevago il capomafia era Pino La Rocca, che però era anziano, non conosceva molti giovani e non riusciva a reclutare nessuno. Ci pensò Dimino a presentargli Guzzo: “E’ un amico, ti puoi fidare”. Fu così che Gino Guzzo divenne il guardiaspalle di Pino La Rocca.
Cosa nostra era ancora attraente, poteva ancora reclutare sangue fresco. Oggi non è più così. Al massimo, si ricorre a qualche parente. Con dei curiosi ribaltamenti. Gino Guzzo, anni fa, fu l’autista di Pino La Rocca. Oggi è lui ad avere come autista un altro Giuseppe La Rocca, nipote di quell’altro.
A Burgio, siamo di nuovo ai Davilla e a Giovanni Derelitto, per giunta suocero di uno dei Capizzi. Ancora loro. Sempre loro.
Non è un fenomeno che riguarda soltanto questo versante dell’agrigentino. Per decenni, Siculiana è stata ritenuta uno dei centri mafiosi più importanti. Patria dei Caruana, boss internazionali del narcotraffico. Poi si scoprì, due-tre anni fa, che da quelle parti i due uomini d’onore rimasti non riuscivano più a mettere in piedi una cosca. Per farlo bisogna essere almeno in tre. Dovettero farsi prestare un mafioso da un comune vicino.
Perfino “lui”, Matteo Messina Denaro, sembra in difficoltà. Lo scrisse di suo pugno a Bernardo Provenzano. Stava in un pizzino: “Qui stanno arrestando perfino le sedie”.
Un segno evidente della crisi di vocazione di cosa nostra, della sua mancanza di appeal, dell’incapacità di trovare nuove leve, viene proprio dall’aria nuova che si respira tra gli imprenditori. Loro, meglio di altri, sanno che i mafiosi sono sempre gli stessi. A Sciacca, tanto per dire, con gli uomini di Di Gangi in galera furono costretti a ricorrere ad un signore di 80 anni.
La vera grande paura di chi era costretto a denunciare cosa nostra stava nella proverbiale memoria lunga dell’associazione. Denunci un mafioso, i carabinieri lo arrestano ma fuori dal carcere ne rimangono a decine. Pronti a farti la pelle. Oggi non è più così. E’ più difficile che un Accursio Dimino trovi un compagno di scuola da reclutare.
Denunciate, gente, denunciate. Cosa nostra è alla frutta. Poche altre volte è stata in crisi come adesso. E’ il momento di approfittarne.
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