lunedì 31 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. La levatrice della storia

Non c’è nazione al mondo che non abbia edificato le proprie città sopra i cadaveri. Scavate sotto qualunque monumento, cercate sotto le fondamenta di qualsiasi palazzo del potere, e troverete un cimitero. Nessun Paese al mondo, nessuna civiltà è innocente.
L’Italia non fa eccezione. La sua levatrice fu la guerra, perché il secolo che la vide nascere, l’Ottocento, fu un’età di guerre e di rivoluzioni. Partorito tra i fumi e la polvere da sparo delle campagne napoleoniche, il Secolo lungo esalerà gli ultimi respiri nelle fangose trincee della prima guerra mondiale.
Se non si ha presente tale contesto, perfino un episodio apparentemente remoto e periferico come la rivolta di Santa Margherita di Belice del 4 e 5 marzo 1861 risulterà incomprensibile.
Eppure fu una delle prime rivolte dell’Italia unita. Appena due settimane prima, alle ore 11 antimeridiane del 18 febbraio 1861, Vittorio Emanuele II aveva aperto la seduta inaugurale della prima legislatura del Regno.
“L’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra” disse il sovrano ai deputati e senatori riuniti in seduta comune. Non prima, tuttavia, di avere ricordato a cosa si dovesse il raggiungimento di un simile obiettivo. Non prima di avere rimarcato per grazia di chi l’Italia fosse nata: “Per mirabile aiuto della divina Provvidenza, per la concorde volontà dei Popoli, e per lo splendido valore degli Eserciti”.
Lo “splendido valore degli Eserciti”. Eserciti con la “E” maiuscola. Come la “P” della Provvidenza e dei Popoli. Le sentenze dei contemporanei sono a volte meno ardue di quelle dei posteri.
Posatasi la polvere da sparo, le nuove classi dirigenti italiane si trovarono a dover fronteggiare un compito difficilissimo. Forse, per molti versi, addirittura impossibile: costruire un Paese i cui neonati cittadini non parlavano neppure la stessa lingua.
L’impresa in cui riuscirono ha dello straordinario. Noi che oggi diamo per scontato il fatto di essere “italiani” tendiamo, temo, a dimenticarlo.
Non fraintendetemi. L’aggettivo “straordinario” va inteso nel senso letterale di un qualcosa che va fuori dell’ordinario. Non gli attribuisco alcuna accezione positiva. Lo maneggio con le pinze di chi ha la dolorosa, terribile consapevolezza che la storia la scrivono sempre i superstiti.
So bene che un sacco di gente è morta, perché tale impresa venisse portata a termine. Ingiustizie sono state commesse. Due guerre mondiali, vent’anni di dittatura fascista. E perfino, giacché di questo mi sto occupando, la mafia. Già, la mafia.
Alle due e mezza della notte fra il 3 e il 4 di marzo, quando venne assassinato Giuseppe Montalbano, il padre di quell’omonimo “barone” di paese che era solito partecipare alle cene della nonna di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la Sicilia era in piena anarchia post-rivoluzionaria. Gli equilibri del potere locale erano instabili, per non dire inesistenti.
Un regime era caduto e un altro doveva ancora prenderne il posto. Giuseppe Montalbano, il morto ammazzato, era un garibaldino. Uno che pensava di far parte della cordata vincente. Non aveva idea di quanto fosse in errore.
Il suo curriculum vitae sembrava perfetto per l’ipotetica nuova Italia che pareva sul punto di materializzarsi. Aveva partecipato alla rivolta palermitana del 1848 e poi, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva messo su un gruppo di picciotti locali e s’era aggregato ai Mille.
Nel momento in cui fu assassinato era consigliere provinciale in carica. Scoprì quand’era troppo tardi, forse senza neppure avere il tempo di capirlo, di essere finito dalla parte sbagliata della storia.
A sparare, disse la voce popolare, furono i gabellotti che gestivano i feudi dei Filangeri di Cutò. Morì per mano borbonica nell’età dei Savoia. E furono i Savoia a salvare i suoi assassini.
Ciò tuttavia non impedì al figlio del morto di passare le serate estive giocando a scopone nel palazzo di famiglia di quegli stessi Filangeri di Cutò.
Da siciliano, mi sforzo da anni di capire la mia terra. Per riuscirci, mi servirà probabilmente raccontare la storia dei tanti Giuseppe Montalbano.
Del Giuseppe Montalbano ammazzato dai gabellotti dei Lampedusa. Del figlio Giuseppe Montalbano che sposò gli eredi degli assassini. Del di lui figlio Giuseppe Montalbano che divenne parlamentare comunista e poi, in età più avanzata, ferocemente anti-marxista. Del figlio di quest’ultimo, Giuseppe Montalbano anch’egli, l’insospettabile proprietario della casa in cui Totò Riina viveva al momento dell’arresto.
Se comprendo la storia di questa famiglia forse, un giorno, potrò perfino a comprendere in che posto sono nato. Non so se riuscirò nell’intento. Solo una cosa posso già anticiparvi. Non aspettatevi da me giudizi morali. Giuseppe Montalbano, l’ultimo della serie, io l’ho conosciuto. Ho cenato con lui, l’ho visto piangere, l’ho visto ridursi in miseria per pagare gli avvocati. L’ho visto mettere all’asta la casa in cui il suo trisavolo, il Giuseppe Montalbano garibaldino, riunì i picciotti del Belice all’indomani dello sbarco dei Mille.
Fatte le dovute premesse, è tempo di cominciare. Erano le due e trenta del mattino del 4 marzo 1861…

sabato 29 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo terzo

Erano tempi tumultuosi. Il Regno dei Borbone di Napoli era miseramente crollato pochi mesi prima e il 21 ottobre 1860 la Sicilia aveva votato l’annessione al neonato Regno d’Italia. Passata l’euforia, i piemontesi vincitori cominciarono ben presto a capire in quale pasticcio s’erano andati a cacciare.
Nel dicembre del 1860, Vittorio Emanuele II aveva nominato il suo primo luogotenente generale delle provincie siciliane, sbarcato sull’Isola per chiudere definitivamente il breve interregno della proditattura d’ispirazione garibaldina.
Si trattava di un fedele servitore di casa Savoia, il marchese Massimo Cordero di Montezemolo, antenato dell’ex-presidente di Confindustria e della Ferrari.
La Formula 1 non era ancora stata inventata, ma la velocità con cui il marchese fuggì dalla Sicilia avrebbe certamente fatto invidia a uno Schumacher.
Già il 20 gennaio del 1861, meno di un mese e mezzo dopo la sua nomina, il flaccido marchese (“un ammasso di carne fatto inerte dal grasso e dalla crapula”, nella descrizione di un agitatore mazziniano) supplicò il ministro dell’Interno Marco Minghetti perché lo sollevasse dall’incarico.
C’è da capirlo, poveraccio. La Sicilia era, in effetti, una terra incomprensibile. Perfino agli occhi delle sue classi dirigenti locali, che oramai da decenni vivevano in un limbo politico-istituzionale.
L’abolizione del feudalesimo (1812) e la conseguente soppressione delle proprietà allodiali e dei fedecommessi, ossia degli istituti giuridici che fino a quella data avevano impedito agli eredi degli antichi casati nobiliari di vendere le proprie terre, aveva già permesso a una media borghesia agraria di nascere, di consolidarsi e perfino, in qualche caso, di acquistare antichi, decaduti blasoni o di crearne di nuovi.
Leggendo il “Gattopardo” sembra quasi che il vituperato don Calogero Sedara si sia materializzato da un giorno all’altro, manco fosse sbarcato a Marsala sul Lombardo di Nino Bixio.
E invece la nemesi dei Salina era già bella che radicata in Sicilia da molto prima dell’arrivo dei Mille. L’annessione dell’Isola al regno d’Italia, l’introduzione di un primo, rudimentale ed elitario sistema elettorale, fu solo lo strumento con cui la locale borghesia trovò finalmente il modo di superare quella che Karl Marx avrebbe definito la contraddizione tra la sovrastruttura politica e la sottostante struttura economica: tra una nobiltà che continuava a detenere il potere politico e la connessa, aristocratica pompa, pur avendo ormai da decenni ceduto a una nuova borghesia l’effettiva gestione dei propri patrimoni.
Fu proprio questa borghesia a trarre vantaggio dall’unificazione dell’Italia. Ed è esattamente in questo preciso momento che nacque ciò che in seguito sarebbe stata definita la “questione meridionale”. Ebbene sì: in questo esatto, delicato momento storico.
Una questione, o domanda che dir si voglia, che ruota intorno a una semplice, apparentemente banale domanda: che borghesia era, quella di razza siciliana?

lunedì 17 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo secondo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da bambino, trascorreva le sue estati a Santa Margherita di Belice.
Per quattro secoli quel piccolo paese in provincia di Agrigento era stato un feudo dei Filangeri di Cutò, la famiglia della madre Beatrice. Lo era esattamente dal 17 settembre del 1620, quando Giuseppe Filangeri pagò i debiti lasciati dai baroni che avevano fondato il paese, al cui casato apparteneva la moglie.
Il Lampedusa bambino vive ovviamente in un’altra epoca. Siamo ai primi del ‘900. In Sicilia il feudalesimo era stato formalmente abolito cento anni prima (1812). Senza che ciò avesse diminuito più di tanto il rispetto, fosse anche solo formale, per l’etichetta dell’ancien régime.
Tanto è vero che i maggiorenti locali facevano a gara per essere invitati nel salotto di Beatrice Filangeri. Per darsi un tono e fingersi nobili per un giorno.
Pranzavano a turno nel suo palazzo e ogni due settimane vi si riunivano per giocare a scopone nella sala da ballo.
“A me sembravano, come forse non erano, unanimemente delle brave persone” scrive l’autore del Gattopardo nei suoi “Ricordi d’infanzia”.
Badate bene: “Come forse non erano”. Lampedusa è troppo siciliano per mettere la mano sul fuoco per chicchessia, e nello stesso tempo troppo colto per fidarsi delle proprie memorie infantili. La lente deformante della nostalgia, si sa, può trasformare il più emerito dei gaglioffi in una persona che non corrisponde ai nostri ricordi e che tuttavia teneramente rimpiangiamo.
Di tutti quegli ospiti abbozza dei veloci, divertiti ritratti. C’era Peppino Lomonaco, che andava a caccia col nonno ed era l’unico a potersi permettere di dare del tu alla madre (che rispondeva con “un rispettoso Lei”). C’era il grosso proprietario terriero Nenè Giaccone, considerato un viveur perché due mesi l’anno viveva in albergo a Palermo. Il cavalier Mario Rossi, che parlava sempre di Frascati avendovi lavorato come ufficiale postale. C’era poi “l’intellettuale del paese” Giorgio Di Giuseppe che a casa sua, la sera, suonava Chopin. Oppure il dottor Monteleone, che aveva studiato a Parigi dove raccontava di avere avuto “avventure straordinarie”.
Solo quando parla di un certo Montalbano (nessuna parentela col sottoscritto – n.d.a.) le parole di Lampedusa si fanno acide e cattive. Citiamo per intero: “Montalbano, anch’egli grosso proprietario, il vero tipo del “barone di paese” ottuso e grossolano, padre, credo, dell’attuale deputato comunista”.
Perché, di colpo, il tono ironico si fa così feroce? Talmente feroce da sembrare perfino fuori luogo? A cosa si deve tanta acrimonia?
Rispondere oggi a queste domande non è facile, per non dire impossibile. Chi può sapere cosa passasse per la testa di Tomasi di Lampedusa?
Certo è strano. Tanto per dire, avrebbe dovuto provare più rancore nei confronti del viveur Nené Giaccone, che invece descrive con superiore distacco. Il cavalier Giuseppe Giaccone, parente del Nené in questione, era stato sindaco del paese dal 1902 al 1914. I Giaccone figurano tra gli acquirenti degli ultimi feudi di Santa Margherita che la famiglia Filangeri fu costretta a vendere per pagarsi i debiti. Eppure Lampedusa lo tratta quasi con affetto. Montalbano, invece…
E poi com’è possibile che un bambino (non dimentichiamoci che Lampedusa sta rievocando le memorie della sua infanzia) possa descrivere una persona mai più rivista con parole così “adulte”? Un “barone di paese”… no, decisamente non è una definizione che si sente spesso in bocca ad un bambino.
Il sospetto che i ricordi d’infanzia c’entrino davvero poco non sembra per nulla peregrino.
Di sicuro, la presenza di Montalbano a quelle serate “mondane” era incomprensibile. Se c’era una persona che mai avrebbe dovuto varcare la soglia di casa Filangeri, quella persona era proprio Giuseppe Montalbano.
Portava lo stesso nome del padre, Giuseppe Montalbano pure lui. Oggi la legge lo proibisce, ma all’epoca ancora si poteva.
Era anzi una regola non scritta, un’usanza, che se un bambino nasceva dopo la morte del padre ne ereditava il nome. Ed è esattamente per questo motivo che Giuseppe Montalbano si chiamava come suo padre.
Non fu una morte qualunque. Se in quegli anni qualcuno si fosse preso la briga di domandare ai passanti di Santa Margherita in che giorno e in che anno era morto Giuseppe Montalbano senior, quasi tutti avrebbero saputo dare la risposta: 3 marzo 1861.
Da allora e fino ai nostri giorni, se a Santa Margherita vogliono dire che c’è stato un putiferio non usano la più comune espressione “è successo un ‘48”. La versione locale è “succidiu un quattru e cincu di marzu” (è successo un 4 e 5 di marzo).
Et pour cause! L’indomani della morte di Giuseppe Montalbano senior, a Santa Margherita scoppiò la rivoluzione
(continua)

domenica 16 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo primo

Le cose cambiano di continuo. Lo vediamo tutti i giorni. Ciò non toglie che sia davvero difficile sottrarsi al fascino di Fernand Braudel e della sua teoria della “lunga durata”. Diceva il grande storico francese che la storia è come una colla resistentissima (mi si perdoni la banalizzante metafora) e che la struttura di base dei popoli e delle civiltà cambia, se lo fa, con millenaria lentezza.
Per esempio, ecco che dopo sette secoli di dominio musulmano in Spagna (diceva appunto Braudel), già all’indomani della Reconquista gli spagnoli tornarono come se nulla fosse a essere cristiani. Come se quei settecento anni di dominio musulmano non ci fossero mai stati.
L’idea che Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva della Sicilia è invero assai braudeliana. La sua immagine dell’Isola è quella di un luogo immodificabile, eterno, congelato nel suo arcaismo, impermeabile alle rivoluzioni e alle sostituzioni delle classi dirigenti, sempre uguale a com’era e a come sarà.
Eppure Braudel aveva torto. L’Europa che tornò a essere cristiana dopo la cacciata dei mori, fino a pochi secoli prima non era cristiana per nulla. Fu solo trecento anni dopo la nascita di Cristo che un imperatore romano fece del cristianesimo la religione ufficiale e gettò nel dimenticatoio Giove, Minerva, Nettuno e tutto il resto dell’Olimpo.
Per superare questa evidente contraddizione, Braudel fu costretto a teorizzare una sostanziale continuità tra l’Europa romana e quella cristiana. Tra Giulio Cesare e Carlo Magno, tra Cicerone e Tommaso d’Aquino, tra Ovidio e Jacopone da Todi. Fu costretto a usare i termini “Occidente”, “cristianità” e “romanità” come se fossero sinonimi. Lo sono veramente?
La “lunga durata” del paganesimo in Sassonia terminò quando Carlo Magno massacrò in nome di Dio e della romanità centinaia di migliaia di sassoni. La storia sa come prendere delle scorciatoie, quando vuole davvero cambiare le cose.
A cambiare la Sicilia, a farla diventare “moderna”, ci provarono i piemontesi. Imposero il codice napoleonico, di fresco importato in Savoia, alle nuove popolazioni italiche. Giusto per avere un’idea del contesto storico, il primo ministro dell’epoca, Camillo Benso conte di Cavour, che parlava il francese molto meglio dell’italiano, era convinto che la lingua dei siciliani fosse l’arabo.
Non funzionò. O almeno così dicono. I siciliani, e come loro i calabresi e i napoletani, trasformarono le nuove istituzioni in strumenti per accaparrarsi il potere e coinvolsero lo Stato e le sue strutture locali nelle faide tra clan.
Con una differenza. Apparentemente insignificante eppure importantissima. Mentre una volta erano solo i Lampedusa a battagliare, adesso anche i Sedara potevano farlo. In maniera sempre più capillare mano a mano che il bacino elettorale si allargava perfino (orribile dictu!) agli analfabeti. La lotta per il potere non era più riservata ai potenti di sangue blu. Perfino quelli di basso ceto potevano ormai permettersi di diventare borghesi e a volte addirittura baroni.
Di questo, a leggerlo bene, parla “Il gattopardo”. Il romanzo descrive gli ultimi anni di agonia di un ceto dirigente. Racconta l’impossibile tentativo del principe di Salina di conservare i propri privilegi di classe in un mondo che sta velocemente cambiando. Ed è certo paradossale che il termine “gattopardismo” venga oggi utilizzato per descrivere un potere che finge soltanto di cambiare ma in realtà rimane sempre lo stesso.
Il vocabolario Treccani lo definisce così: “l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe”.
A giudicare dall’uso che si fa del termine “gattopardo”, sembrerebbe che in Sicilia governino da sempre le stesse persone. Eppure il romanzo di Lampedusa parla dell’esatto contrario, ossia della caduta di una vecchia classe dirigente e dell’ascesa al potere di un nuovo ceto politico. Della fine del secolare potere dell’aristocrazia terriera siciliana e della nascita di una nuova borghesia. Chiamatela borghesia agro-mafiosa, se volete, ma di una rivoluzione borghese comunque si è trattato.
Per essere più espliciti, la Sicilia che Lampedusa descrive nel suo romanzo è l’esatto contrario di ciò che lui pensava della Sicilia e dei siciliani. Se mai un libro ha tradito il pensiero del suo autore, è stato proprio il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.
La Sicilia degli anni ’50, quando Lampedusa scrisse il Gattopardo, era profondamente diversa da quella della seconda metà dell’Ottocento, l’epoca in cui il romanzo fu ambientato. Eppure Lampedusa pensava di ritrarre la stessa, immutabile realtà.
Com’è stato allora possibile che la nostalgica e per molti versi disincantata descrizione della fine di un’era si sia trasformata nel suo opposto? Che il racconto di un così radicale cambiamento sia diventato il simbolo dell’immutabilità delle cose?
Quanta dose di pregiudizio nei confronti di siciliani è stata necessaria, perché potesse accadere? E non parlo solo del pregiudizio degli “altri” nei confronti dei siciliani, bensì anche di quello dei siciliani nei confronti di se stessi.
Com’è stato possibile che Tomasi di Lampedusa abbia scritto un romanzo che ha raccontato con straordinaria efficacia l’esatto contrario di ciò che lui pensava?

martedì 4 agosto 2015

Quando gli zombie divennero cannibali

Poveri zombie, come li abbiamo ridotti!
Ci siamo ormai talmente abituati a vederli camminare in branco, a osservarli disgustati mentre mordono e sbranano, a fare il tifo per chi li abbatte a fucilate o a calci sulla testa, da esserci completamente dimenticati di che cosa fossero in origine.
Era il 1929 quando un libro li fece conoscere per la prima volta ai lettori anglosassoni. William Seabrook, un autore americano di libri di viaggio all’epoca molto popolare, dedicò loro un capitolo del suo reportage da Haiti.
I suoi zombie non erano affatto mangiatori di uomini. Traduco dal suo “The Magic Island” (l‘Isola della magia): “Lo zombie è un corpo umano senz’anima. E’ un cadavere dissepolto cui uno stregone ha donato una parvenza di vita. Un morto che si può fare camminare, muovere e agire come se fosse vivo. Chi ha il potere di farlo cerca una tomba scavata da poco, disseppellisce il cadavere prima che cominci a putrefarsi, gli ordina di tornare a muoversi e lo fa diventare un servo o uno schiavo, a volte per fargli commettere un crimine ma più spesso per affidargli i lavori più pesanti e più degradanti”.
Gli zombie erano tutto tranne che cannibali. Tra l’altro non avrebbero mai potuto mangiare la carne umana, perché secondo la leggenda qualunque alimento che contenesse del sale ne provocava il risveglio e li faceva tornare alle proprie tombe.
Erano schiavi, e non è certo un caso che il loro mito sia nato ad Haiti, la cui popolazione era composta dai discendenti delle centinaia di migliaia di africani che i negrieri di mezzo mondo avevano trascinato lì in catene. Come non è un caso che i primi zombie di cui Seabrook parla lavorassero come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero di quella che oggi chiameremmo una multinazionale americana dell’agroalimentare.
The Magic Island riscosse un grande successo. Hollywood ne prese spunto per girare il primo film di zombie della storia: “White Zombie” (1932), in italiano “L’Isola degli zombies”. Un film orribile con Bela Lugosi ma in cui gli zombie erano fedeli alla versione originale.
Come lo saranno ancora nello straordinario “Ho camminato con uno zombie” di Jacques Tourneur (1943), e nei pochi altri film dei successivi 25 anni in cui compariranno.
Diverranno cannibali solo nel 1968, con la “Notte dei morti viventi” di George Romero. Qui comincia un’altra storia. All’inizio i morti viventi nella versione antropofaga furono chiamati zombie per similitudine. In assenza di una parola che li definisse se ne prese in prestito una che già esisteva e che per giunta suonava orrifica il giusto.
Ne nacque uno dei filoni cinematografici (e adesso anche televisivi) di maggiore successo. Un successo che ha perfino modificato il significato della parola. Oggi gli zombie non sono più gli schiavi che erano in origine. Sono diventati dei cannibali senza cervello che invadono le nostre case, sbranano i nostri figli e le nostre mogli, degli infetti il cui contatto ci fa diventare come loro, dei subumani cui possiamo sparare liberamente. Da vittime quali erano sono diventati carnefici. Vi ricorda qualcosa?
Trovo estremamente illuminante e assai significativa questa metamorfosi degli zombie, che è andata di pari passo con la demonizzazione dei poveri, degli immigrati, dei disoccupati, perfino di molte categorie di lavoratori. Con l’aumento delle disuguaglianze sociali.
Ognuno deve fare da sé. Dobbiamo difenderci dal vicino di casa che s’è trasformato in un cannibale, costruire muri per tenere fuori chi ci vuole sbranare, dobbiamo avere paura se incontriamo degli sconosciuti che camminano in gruppo.
Gli zombie, di questi tempi, sono dappertutto. Non date retta alle anime belle che vogliono farvi credere che si tratta di un pugno di disgraziati. Le buone intenzioni possono solo lastricare la strada per l’apocalisse.
Non è così che va il mondo. Per la sicurezza vostra e delle vostre famiglie, è molto meglio dormire con una 44 Magnum sotto al cuscino.

E fu subito trazzera

Con soli 300 mila euro, il Movimento 5 Stelle s’è garantito la vittoria alle prossime elezioni regionali siciliane. E’ quello che è costato ai grillini fare asfaltare la trazzera di Caltavuturo. Sono sicuro che gli esperti in pubbliche relazioni, i pubblicitari, i consulenti all’immagine si staranno spellando le mani. Mai una campagna pubblicitaria è costata così poco.
Ho letto alcune delle critiche assai pelose che sono state rivolte ai grillini: la strada ha una pendenza del 27 per cento, c’è un limite di 20 chilometri orari, il semaforo, il senso unico alternato e così via. Solo chi non è siciliano può prendere sul serio questo tipo di critiche.
Ci sono strade statali, in Sicilia, in cui per lunghissimi tratti non si possono superare i 50. In discesa. Eppure sono costate molto di più e ci sono voluti decenni per vederle completate. Per rispettare quei limiti di velocità bisognerebbe andare di terza per chilometri, senza mai staccare il piede dal freno. Lo so bene perché una volta, quando stampavo un giornale in Sicilia, ho provato a farlo.
E’ ovvio che tutti se ne fregano di quei ridicoli divieti. Com’è altrettanto ovvio che ogni multa per eccesso di velocità sulla “trazzera” di Caltavuturo sarà un voto in più per i Cinque Stelle.
Da qui a poco, appena il penoso governo Crocetta finirà di rantolare, Beppe Grillo governerà la Sicilia. Fatevene una ragione.
Sarà un esperimento di grande interesse scientifico. L’Onestà che pianta le sue bandiere a Palazzo dei Normanni. Perché i siciliani adorano l’Onestà. Non vedono l’ora di avere dei governanti che fanno rispettare le regole. Che fanno vincere i concorsi ai più capaci, che fanno fermare le automobili davanti alle strisce pedonali, che fanno pagare le tasse, che abbattono le case abusive, che impugnano la scure e licenziano tutti gli impiegati regionali, provinciali, comunali che da decenni rubano lo stipendio. Che mandano a casa tutti i raccomandati. Tutti, dal primo all’ultimo.
Perché se c’è una cosa che i siciliani apprezzano è l’Onestà. Soprattutto quella altrui. Vanno in brodo di giuggiole se un gruppo di parlamentari finanzia con i propri soldi la costruzione di una strada. Sono disposti perfino a votarli, se rinunciano alle loro indennità di carica. Non vedo l’ora di vedere se continueranno a votarli quando, in nome dell’Onestà, i grillini chiederanno ai siciliani di rinunciare a parte del loro proprio reddito per finanziare le opere pubbliche che alla Sicilia servono come il pane.
Perché il mio ricordo della Sicilia è leggermente diverso. Quando me ne andai dall’Isola non fu per la corruzione dei politici. Me ne andai perché non sopportavo più le illegalità commesse dai vicini di casa. Non ne potevo più della musica a tutto volume alle due di notte, della gente che mi avvelenava i cani, di dovermi guardare alle spalle mentre facevo la fila alle poste, di non potere più fare le mie adorate passeggiate sulla spiaggia perché qualcuno, da una notte all’altra, aveva deciso di tirare su una recinzione illegale.
Non vedo l’ora che i grillini governino la Sicilia e facciano finalmente rispettare le regole. La loro Onestà, fino ad ora, è servita a finanziare un chilometro di strada. L’Onestà di tutti i consiglieri regionali, provinciali e comunali, se tutto va bene, potrebbe forse farne asfaltare altri cento. Meglio di niente, per carità. Per rimettere a posto la Sicilia, tuttavia, oltre a quella dell’elettorato passivo servirebbe pure l’Onestà dell’elettorato attivo.
Alcuni precedenti storici sono incoraggianti. L’arancio, il pomodoro, l’olivo, tutte piante che oggi prosperano in Sicilia, furono anch’esse importate da qualche altro posto.
Detto senza ironia e col distacco di chi ormai da tanti anni vive in un altro paese: chi può saperlo? Anche un trapianto d’Onestà potrebbe avere la stessa fortuna.