Non c’è nazione al mondo che non abbia edificato le proprie città sopra i cadaveri. Scavate sotto qualunque monumento, cercate sotto le fondamenta di qualsiasi palazzo del potere, e troverete un cimitero. Nessun Paese al mondo, nessuna civiltà è innocente.
L’Italia non fa eccezione. La sua levatrice fu la guerra, perché il secolo che la vide nascere, l’Ottocento, fu un’età di guerre e di rivoluzioni. Partorito tra i fumi e la polvere da sparo delle campagne napoleoniche, il Secolo lungo esalerà gli ultimi respiri nelle fangose trincee della prima guerra mondiale.
Se non si ha presente tale contesto, perfino un episodio apparentemente remoto e periferico come la rivolta di Santa Margherita di Belice del 4 e 5 marzo 1861 risulterà incomprensibile.
Eppure fu una delle prime rivolte dell’Italia unita. Appena due settimane prima, alle ore 11 antimeridiane del 18 febbraio 1861, Vittorio Emanuele II aveva aperto la seduta inaugurale della prima legislatura del Regno.
“L’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra” disse il sovrano ai deputati e senatori riuniti in seduta comune. Non prima, tuttavia, di avere ricordato a cosa si dovesse il raggiungimento di un simile obiettivo. Non prima di avere rimarcato per grazia di chi l’Italia fosse nata: “Per mirabile aiuto della divina Provvidenza, per la concorde volontà dei Popoli, e per lo splendido valore degli Eserciti”.
Lo “splendido valore degli Eserciti”. Eserciti con la “E” maiuscola. Come la “P” della Provvidenza e dei Popoli. Le sentenze dei contemporanei sono a volte meno ardue di quelle dei posteri.
Posatasi la polvere da sparo, le nuove classi dirigenti italiane si trovarono a dover fronteggiare un compito difficilissimo. Forse, per molti versi, addirittura impossibile: costruire un Paese i cui neonati cittadini non parlavano neppure la stessa lingua.
L’impresa in cui riuscirono ha dello straordinario. Noi che oggi diamo per scontato il fatto di essere “italiani” tendiamo, temo, a dimenticarlo.
Non fraintendetemi. L’aggettivo “straordinario” va inteso nel senso letterale di un qualcosa che va fuori dell’ordinario. Non gli attribuisco alcuna accezione positiva. Lo maneggio con le pinze di chi ha la dolorosa, terribile consapevolezza che la storia la scrivono sempre i superstiti.
So bene che un sacco di gente è morta, perché tale impresa venisse portata a termine. Ingiustizie sono state commesse. Due guerre mondiali, vent’anni di dittatura fascista. E perfino, giacché di questo mi sto occupando, la mafia. Già, la mafia.
Alle due e mezza della notte fra il 3 e il 4 di marzo, quando venne assassinato Giuseppe Montalbano, il padre di quell’omonimo “barone” di paese che era solito partecipare alle cene della nonna di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la Sicilia era in piena anarchia post-rivoluzionaria. Gli equilibri del potere locale erano instabili, per non dire inesistenti.
Un regime era caduto e un altro doveva ancora prenderne il posto. Giuseppe Montalbano, il morto ammazzato, era un garibaldino. Uno che pensava di far parte della cordata vincente. Non aveva idea di quanto fosse in errore.
Il suo curriculum vitae sembrava perfetto per l’ipotetica nuova Italia che pareva sul punto di materializzarsi. Aveva partecipato alla rivolta palermitana del 1848 e poi, dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, aveva messo su un gruppo di picciotti locali e s’era aggregato ai Mille.
Nel momento in cui fu assassinato era consigliere provinciale in carica. Scoprì quand’era troppo tardi, forse senza neppure avere il tempo di capirlo, di essere finito dalla parte sbagliata della storia.
A sparare, disse la voce popolare, furono i gabellotti che gestivano i feudi dei Filangeri di Cutò. Morì per mano borbonica nell’età dei Savoia. E furono i Savoia a salvare i suoi assassini.
Ciò tuttavia non impedì al figlio del morto di passare le serate estive giocando a scopone nel palazzo di famiglia di quegli stessi Filangeri di Cutò.
Da siciliano, mi sforzo da anni di capire la mia terra. Per riuscirci, mi servirà probabilmente raccontare la storia dei tanti Giuseppe Montalbano.
Del Giuseppe Montalbano ammazzato dai gabellotti dei Lampedusa. Del figlio Giuseppe Montalbano che sposò gli eredi degli assassini. Del di lui figlio Giuseppe Montalbano che divenne parlamentare comunista e poi, in età più avanzata, ferocemente anti-marxista. Del figlio di quest’ultimo, Giuseppe Montalbano anch’egli, l’insospettabile proprietario della casa in cui Totò Riina viveva al momento dell’arresto.
Se comprendo la storia di questa famiglia forse, un giorno, potrò perfino a comprendere in che posto sono nato. Non so se riuscirò nell’intento. Solo una cosa posso già anticiparvi. Non aspettatevi da me giudizi morali. Giuseppe Montalbano, l’ultimo della serie, io l’ho conosciuto. Ho cenato con lui, l’ho visto piangere, l’ho visto ridursi in miseria per pagare gli avvocati. L’ho visto mettere all’asta la casa in cui il suo trisavolo, il Giuseppe Montalbano garibaldino, riunì i picciotti del Belice all’indomani dello sbarco dei Mille.
Fatte le dovute premesse, è tempo di cominciare. Erano le due e trenta del mattino del 4 marzo 1861…
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