Le cose cambiano di continuo. Lo vediamo tutti i giorni. Ciò non toglie che sia davvero difficile sottrarsi al fascino di Fernand Braudel e della sua teoria della “lunga durata”. Diceva il grande storico francese che la storia è come una colla resistentissima (mi si perdoni la banalizzante metafora) e che la struttura di base dei popoli e delle civiltà cambia, se lo fa, con millenaria lentezza.
Per esempio, ecco che dopo sette secoli di dominio musulmano in Spagna (diceva appunto Braudel), già all’indomani della Reconquista gli spagnoli tornarono come se nulla fosse a essere cristiani. Come se quei settecento anni di dominio musulmano non ci fossero mai stati.
L’idea che Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva della Sicilia è invero assai braudeliana. La sua immagine dell’Isola è quella di un luogo immodificabile, eterno, congelato nel suo arcaismo, impermeabile alle rivoluzioni e alle sostituzioni delle classi dirigenti, sempre uguale a com’era e a come sarà.
Eppure Braudel aveva torto. L’Europa che tornò a essere cristiana dopo la cacciata dei mori, fino a pochi secoli prima non era cristiana per nulla. Fu solo trecento anni dopo la nascita di Cristo che un imperatore romano fece del cristianesimo la religione ufficiale e gettò nel dimenticatoio Giove, Minerva, Nettuno e tutto il resto dell’Olimpo.
Per superare questa evidente contraddizione, Braudel fu costretto a teorizzare una sostanziale continuità tra l’Europa romana e quella cristiana. Tra Giulio Cesare e Carlo Magno, tra Cicerone e Tommaso d’Aquino, tra Ovidio e Jacopone da Todi. Fu costretto a usare i termini “Occidente”, “cristianità” e “romanità” come se fossero sinonimi. Lo sono veramente?
La “lunga durata” del paganesimo in Sassonia terminò quando Carlo Magno massacrò in nome di Dio e della romanità centinaia di migliaia di sassoni. La storia sa come prendere delle scorciatoie, quando vuole davvero cambiare le cose.
A cambiare la Sicilia, a farla diventare “moderna”, ci provarono i piemontesi. Imposero il codice napoleonico, di fresco importato in Savoia, alle nuove popolazioni italiche. Giusto per avere un’idea del contesto storico, il primo ministro dell’epoca, Camillo Benso conte di Cavour, che parlava il francese molto meglio dell’italiano, era convinto che la lingua dei siciliani fosse l’arabo.
Non funzionò. O almeno così dicono. I siciliani, e come loro i calabresi e i napoletani, trasformarono le nuove istituzioni in strumenti per accaparrarsi il potere e coinvolsero lo Stato e le sue strutture locali nelle faide tra clan.
Con una differenza. Apparentemente insignificante eppure importantissima. Mentre una volta erano solo i Lampedusa a battagliare, adesso anche i Sedara potevano farlo. In maniera sempre più capillare mano a mano che il bacino elettorale si allargava perfino (orribile dictu!) agli analfabeti. La lotta per il potere non era più riservata ai potenti di sangue blu. Perfino quelli di basso ceto potevano ormai permettersi di diventare borghesi e a volte addirittura baroni.
Di questo, a leggerlo bene, parla “Il gattopardo”. Il romanzo descrive gli ultimi anni di agonia di un ceto dirigente. Racconta l’impossibile tentativo del principe di Salina di conservare i propri privilegi di classe in un mondo che sta velocemente cambiando. Ed è certo paradossale che il termine “gattopardismo” venga oggi utilizzato per descrivere un potere che finge soltanto di cambiare ma in realtà rimane sempre lo stesso.
Il vocabolario Treccani lo definisce così: “l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe”.
A giudicare dall’uso che si fa del termine “gattopardo”, sembrerebbe che in Sicilia governino da sempre le stesse persone. Eppure il romanzo di Lampedusa parla dell’esatto contrario, ossia della caduta di una vecchia classe dirigente e dell’ascesa al potere di un nuovo ceto politico. Della fine del secolare potere dell’aristocrazia terriera siciliana e della nascita di una nuova borghesia. Chiamatela borghesia agro-mafiosa, se volete, ma di una rivoluzione borghese comunque si è trattato.
Per essere più espliciti, la Sicilia che Lampedusa descrive nel suo romanzo è l’esatto contrario di ciò che lui pensava della Sicilia e dei siciliani. Se mai un libro ha tradito il pensiero del suo autore, è stato proprio il “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.
La Sicilia degli anni ’50, quando Lampedusa scrisse il Gattopardo, era profondamente diversa da quella della seconda metà dell’Ottocento, l’epoca in cui il romanzo fu ambientato. Eppure Lampedusa pensava di ritrarre la stessa, immutabile realtà.
Com’è stato allora possibile che la nostalgica e per molti versi disincantata descrizione della fine di un’era si sia trasformata nel suo opposto? Che il racconto di un così radicale cambiamento sia diventato il simbolo dell’immutabilità delle cose?
Quanta dose di pregiudizio nei confronti di siciliani è stata necessaria, perché potesse accadere? E non parlo solo del pregiudizio degli “altri” nei confronti dei siciliani, bensì anche di quello dei siciliani nei confronti di se stessi.
Com’è stato possibile che Tomasi di Lampedusa abbia scritto un romanzo che ha raccontato con straordinaria efficacia l’esatto contrario di ciò che lui pensava?
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