Erano tempi tumultuosi. Il Regno dei Borbone di Napoli era miseramente crollato pochi mesi prima e il 21 ottobre 1860 la Sicilia aveva votato l’annessione al neonato Regno d’Italia. Passata l’euforia, i piemontesi vincitori cominciarono ben presto a capire in quale pasticcio s’erano andati a cacciare.
Nel dicembre del 1860, Vittorio Emanuele II aveva nominato il suo primo luogotenente generale delle provincie siciliane, sbarcato sull’Isola per chiudere definitivamente il breve interregno della proditattura d’ispirazione garibaldina.
Si trattava di un fedele servitore di casa Savoia, il marchese Massimo Cordero di Montezemolo, antenato dell’ex-presidente di Confindustria e della Ferrari.
La Formula 1 non era ancora stata inventata, ma la velocità con cui il marchese fuggì dalla Sicilia avrebbe certamente fatto invidia a uno Schumacher.
Già il 20 gennaio del 1861, meno di un mese e mezzo dopo la sua nomina, il flaccido marchese (“un ammasso di carne fatto inerte dal grasso e dalla crapula”, nella descrizione di un agitatore mazziniano) supplicò il ministro dell’Interno Marco Minghetti perché lo sollevasse dall’incarico.
C’è da capirlo, poveraccio. La Sicilia era, in effetti, una terra incomprensibile. Perfino agli occhi delle sue classi dirigenti locali, che oramai da decenni vivevano in un limbo politico-istituzionale.
L’abolizione del feudalesimo (1812) e la conseguente soppressione delle proprietà allodiali e dei fedecommessi, ossia degli istituti giuridici che fino a quella data avevano impedito agli eredi degli antichi casati nobiliari di vendere le proprie terre, aveva già permesso a una media borghesia agraria di nascere, di consolidarsi e perfino, in qualche caso, di acquistare antichi, decaduti blasoni o di crearne di nuovi.
Leggendo il “Gattopardo” sembra quasi che il vituperato don Calogero Sedara si sia materializzato da un giorno all’altro, manco fosse sbarcato a Marsala sul Lombardo di Nino Bixio.
E invece la nemesi dei Salina era già bella che radicata in Sicilia da molto prima dell’arrivo dei Mille. L’annessione dell’Isola al regno d’Italia, l’introduzione di un primo, rudimentale ed elitario sistema elettorale, fu solo lo strumento con cui la locale borghesia trovò finalmente il modo di superare quella che Karl Marx avrebbe definito la contraddizione tra la sovrastruttura politica e la sottostante struttura economica: tra una nobiltà che continuava a detenere il potere politico e la connessa, aristocratica pompa, pur avendo ormai da decenni ceduto a una nuova borghesia l’effettiva gestione dei propri patrimoni.
Fu proprio questa borghesia a trarre vantaggio dall’unificazione dell’Italia. Ed è esattamente in questo preciso momento che nacque ciò che in seguito sarebbe stata definita la “questione meridionale”. Ebbene sì: in questo esatto, delicato momento storico.
Una questione, o domanda che dir si voglia, che ruota intorno a una semplice, apparentemente banale domanda: che borghesia era, quella di razza siciliana?
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