lunedì 17 agosto 2015

Gli artigli del Gattopardo. Capitolo secondo

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da bambino, trascorreva le sue estati a Santa Margherita di Belice.
Per quattro secoli quel piccolo paese in provincia di Agrigento era stato un feudo dei Filangeri di Cutò, la famiglia della madre Beatrice. Lo era esattamente dal 17 settembre del 1620, quando Giuseppe Filangeri pagò i debiti lasciati dai baroni che avevano fondato il paese, al cui casato apparteneva la moglie.
Il Lampedusa bambino vive ovviamente in un’altra epoca. Siamo ai primi del ‘900. In Sicilia il feudalesimo era stato formalmente abolito cento anni prima (1812). Senza che ciò avesse diminuito più di tanto il rispetto, fosse anche solo formale, per l’etichetta dell’ancien régime.
Tanto è vero che i maggiorenti locali facevano a gara per essere invitati nel salotto di Beatrice Filangeri. Per darsi un tono e fingersi nobili per un giorno.
Pranzavano a turno nel suo palazzo e ogni due settimane vi si riunivano per giocare a scopone nella sala da ballo.
“A me sembravano, come forse non erano, unanimemente delle brave persone” scrive l’autore del Gattopardo nei suoi “Ricordi d’infanzia”.
Badate bene: “Come forse non erano”. Lampedusa è troppo siciliano per mettere la mano sul fuoco per chicchessia, e nello stesso tempo troppo colto per fidarsi delle proprie memorie infantili. La lente deformante della nostalgia, si sa, può trasformare il più emerito dei gaglioffi in una persona che non corrisponde ai nostri ricordi e che tuttavia teneramente rimpiangiamo.
Di tutti quegli ospiti abbozza dei veloci, divertiti ritratti. C’era Peppino Lomonaco, che andava a caccia col nonno ed era l’unico a potersi permettere di dare del tu alla madre (che rispondeva con “un rispettoso Lei”). C’era il grosso proprietario terriero Nenè Giaccone, considerato un viveur perché due mesi l’anno viveva in albergo a Palermo. Il cavalier Mario Rossi, che parlava sempre di Frascati avendovi lavorato come ufficiale postale. C’era poi “l’intellettuale del paese” Giorgio Di Giuseppe che a casa sua, la sera, suonava Chopin. Oppure il dottor Monteleone, che aveva studiato a Parigi dove raccontava di avere avuto “avventure straordinarie”.
Solo quando parla di un certo Montalbano (nessuna parentela col sottoscritto – n.d.a.) le parole di Lampedusa si fanno acide e cattive. Citiamo per intero: “Montalbano, anch’egli grosso proprietario, il vero tipo del “barone di paese” ottuso e grossolano, padre, credo, dell’attuale deputato comunista”.
Perché, di colpo, il tono ironico si fa così feroce? Talmente feroce da sembrare perfino fuori luogo? A cosa si deve tanta acrimonia?
Rispondere oggi a queste domande non è facile, per non dire impossibile. Chi può sapere cosa passasse per la testa di Tomasi di Lampedusa?
Certo è strano. Tanto per dire, avrebbe dovuto provare più rancore nei confronti del viveur Nené Giaccone, che invece descrive con superiore distacco. Il cavalier Giuseppe Giaccone, parente del Nené in questione, era stato sindaco del paese dal 1902 al 1914. I Giaccone figurano tra gli acquirenti degli ultimi feudi di Santa Margherita che la famiglia Filangeri fu costretta a vendere per pagarsi i debiti. Eppure Lampedusa lo tratta quasi con affetto. Montalbano, invece…
E poi com’è possibile che un bambino (non dimentichiamoci che Lampedusa sta rievocando le memorie della sua infanzia) possa descrivere una persona mai più rivista con parole così “adulte”? Un “barone di paese”… no, decisamente non è una definizione che si sente spesso in bocca ad un bambino.
Il sospetto che i ricordi d’infanzia c’entrino davvero poco non sembra per nulla peregrino.
Di sicuro, la presenza di Montalbano a quelle serate “mondane” era incomprensibile. Se c’era una persona che mai avrebbe dovuto varcare la soglia di casa Filangeri, quella persona era proprio Giuseppe Montalbano.
Portava lo stesso nome del padre, Giuseppe Montalbano pure lui. Oggi la legge lo proibisce, ma all’epoca ancora si poteva.
Era anzi una regola non scritta, un’usanza, che se un bambino nasceva dopo la morte del padre ne ereditava il nome. Ed è esattamente per questo motivo che Giuseppe Montalbano si chiamava come suo padre.
Non fu una morte qualunque. Se in quegli anni qualcuno si fosse preso la briga di domandare ai passanti di Santa Margherita in che giorno e in che anno era morto Giuseppe Montalbano senior, quasi tutti avrebbero saputo dare la risposta: 3 marzo 1861.
Da allora e fino ai nostri giorni, se a Santa Margherita vogliono dire che c’è stato un putiferio non usano la più comune espressione “è successo un ‘48”. La versione locale è “succidiu un quattru e cincu di marzu” (è successo un 4 e 5 di marzo).
Et pour cause! L’indomani della morte di Giuseppe Montalbano senior, a Santa Margherita scoppiò la rivoluzione
(continua)

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