giovedì 11 settembre 2008

Italkali senza pretendenti


Pubblicato sul Sole 24 Ore Sud di mercoledì 10 settembre.

La Regione siciliana non riesce a liberarsi del 51% dell’Italkali s.pa. posseduto dall’Ente Minerario Siciliano in liquidazione. Un primo bando di vendita, nel 2005, era naufragato nelle aule di tribunale, costringendo la Regione ad annullare la cessione delle quote pubbliche agli austriaci della Salinen.
Ad aprile, il secondo bando di vendita è andato deserto, malgrado alcune società (siciliane e straniere) sembrassero inizialmente interessate. “Probabilmente – dice il commissario liquidatore dell’EMS, Rosalba Alessi – è dipeso dal fatto che il bilancio 2007 presenta delle perdite. Per questo motivo ho suggerito all’assessorato all’Industria di aspettare qualche mese prima di procedere ad un nuovo bando, in attesa di capire se quest’anno ci saranno i miglioramenti che al momento sembrano esserci”. Non tutti sono d’accordo con Alba Alessi. Ad esempio, Antonio Vitellaro, amministratore vicario dell’Italkali (il cui Cda è nominato dai soci privati) sostiene che il vero problema era la bozza di contratto sottoposta ai potenziali acquirenti.
Il bilancio approvato a fine maggio, ad ogni modo, non è certo stato tra i migliori. Specializzata nella coltivazione e commercializzazione del salgemma, l’Italkali ha visto crollare la produzione da 1.047.179 tonnellate di tout venant del 2006 a poco più di 500 mila tonnellate (il tout venant è il minerale per come esce dal sottosuolo, prima dei processi di trasformazione). Alla base del calo, il clima eccessivamente mite: poca neve sia in Nord Italia che nell’Europa centrale e settentrionale, tradizionali mercati di sbocco per il sale antigelo (quello che si sparge su strade e autostrade). Una crisi che, è bene precisarlo, non ha colpito soltanto l’Italkali ma l’intero settore a livello internazionale. Non a caso, tornando all’Italkali, è stata la miniera di Realmonte in provincia di Agrigento a subire le conseguenze più pesanti. Gli altri due siti estrattivi siciliani, Petralia (in provincia di Palermo) e Racalmuto (sempre in provincia di Agrigento), danno un sale molto puro, destinato a scopi alimentari e industriali, e non hanno subito apprezzabili conseguenze negative. La miniera di Realmonte, il cui sale meno puro può essere usato solo come antigelo, è passata invece dalle quasi 600 mila tonnellate del 2006 a meno di 80 mila nel 2007. Quest’anno le cose vanno un po’ meglio. I dati del primo semestre 2008 dicono che la produzione è pari a quella dell’anno scorso a Petralia, praticamente raddoppiata a Racalmuto e in considerevole crescita anche a Realmonte, dove però l’estrazione del salgemma è stata frenata dalla necessità di esaurire le scorte dell’anno precedente. E dire che proprio nel sottosuolo di Realmonte riposa una buona parte del futuro dell’Italkali. E’ qui che si trova un consistente giacimento di kainite, per i chimici un sale doppio di potassio e magnesio commisto a salgemma. Nel 2002 uno studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche valutò la consistenza del giacimento, stimandone una vita di circa 40 anni. Attraverso un processo industriale, dalla kainite si può ricavare solfato di potassio da utilizzare come fertilizzante in agricoltura. “Potrebbe consentirci – dice Antonio Vitellaro – di inserirci nei mercati internazionali in maniera remunerativa. Se solo ce lo lasciassero fare”.
Al momento comunque l’Italkali ha 263 dipendenti, 176 dei quali in Sicilia (nell’indotto lavorano altre 230 persone, tra addetti alla manutenzione e trasportatori).
Pochi sanno che i primi a comprendere la possibilità di ottenere solfato di potassio dalla kainite furono gli italiani. Il relativo procedimento industriale fu infatti brevettato dalla Montecatini negli anni ’60. Il primo stabilimento ad applicarlo fu quello di Campofranco in provincia di Caltanissetta, dove la kainite arrivava tramite teleferica dalla miniera di S. Cataldo. Una storia conclusasi nel 1992, quando la Sicilia finì fuori legge nello smaltimento dei rifiuti potassici: la Regione aveva previsto una condotta per consentire il deflusso a mare degli scarti di lavorazione (la cosiddetta salamoia), rimasta però sulla carta. Doveva sfociare dalle parti di Sciacca dopo aver attraversato il territorio di due province.
Il nuovo stabilimento Italkali per la lavorazione della kainite è previsto a Porto Empedocle, in un’area di 220 mila metri quadrati all’interno dell’area industriale (esattamente alle spalle del rigassificatore progettato dalla ENEL Power). A regime dovrebbe creare 300 nuovi posti di lavoro senza considerare l’indotto. Se ne parla dal dicembre del 2003, quando l’Italkali ha chiesto all’ASI di Agrigento l’assegnazione dell’area. Pochi giorni e l’ASI risponde di non averne la disponibilità. Nel marzo 2004 l’azienda ha presentato una proposta di contratto di programma e a novembre ha chiesto nuovamente l’area, questa volta alla Capitaneria di Porto. A dicembre la risposta: l’istanza potrà essere valutata solo dopo la riconsegna delle aree da parte dell’ASI. Si tratta in effetti di uno specchio di mare che l’ASI deve ricolmare e attrezzare. Peccato che i lavori, iniziati oltre dieci anni fa, non si siano ancora conclusi. Di conseguenza l’area rimane in una sorta di limbo burocratico: “prestata” all’ASI, è però di competenza della Capitaneria. Così, nel marzo 2005 l’Italkali prova a tagliare la testa al toro e fa richiesta a tutti e due gli enti, ricevendone però altrettanti rifiuti. Tanto che il CIPE, a settembre, respinge la domanda di accesso ai contratti di programma perché l’Italkali non ha trasmesso la “dichiarazione di disponibilità del suolo”. Per Stefano Catuara, presidente dell’ASI di Agrigento, il vero problema è che “negli anni, la vicenda non è stata mai affrontata”. L’area richiesta dell’Italkali, dice, non tiene conto del piano ASI né delle istanze presentate da altri gruppi industriali, anche agrigentini: “L’unico modo per risolvere il problema – spiega - sarebbe un protocollo d’intesa tra l’ASI, la Capitaneria e le imprese interessate per rendere compatibili i diversi insediamenti”.

Lo scempio delle antiche terme



Le foto che vedete testimoniano uno scempio. Sono state scattate dentro e fuori lo stabilimento delle Antiche Terme Selinuntine, di proprietà della Regione siciliana tramite l’Azienda Autonoma delle Terme e attualmente in concessione alla Terme di Sciacca s.p.a. Si raggiunge dalla via Figuli, alla fine della scala che a pochi metri dal viale delle Terme conduce in contrada Muciare dopo avere attraversato il torrente Bagni. Era qui che, un tempo, si trovava la fonte della cosiddetta Acqua Santa, nota da secoli per le sue virtù terapeutiche. Lo stabilimento venne restaurato nel 1984-85, all’epoca in cui l’Azienda delle Terme era diretta da Pasquale Mannino. Fu il geologo Forlani a ritrovare la fonte dell’Acqua Santa, che era andata perduta in seguito al terremoto del 1968. Peccato si fosse ben presto scoperto che la celebrata acqua aveva perso la sua santità: i residenti delle contrade Isabella, S. Antonio e Sovareto, a furia di scaricare i reflui dove capitava, l’avevano inquinata. Coliformi fecali: questo dissero le analisi.

Ad entrarci oggi si viene assaliti dallo sconforto. Innanzi tutto perché farlo è semplicissimo. I due portoni d’ingresso sono entrambi spalancati, e perfino il cancello della recinzione è chiuso solo per finta: la catena è arrotolata attorno alle sbarre ma il lucchetto (come avete visto) è incredibilmente aperto. Basta spingere e il gioco è fatto (è così che ce ne siamo accorti: appoggiandoci per sbaglio).
Da un pozzetto l'acqua sulfurea continua a scorrere, copiosa. Disperata, in mancanza di un uso più proficuo, si getta nel torrente Bagni.
Nella sala d’ingresso, accatastati come viene, diversi fusti. Sono pieni, ho provato a sollevarli. Abbandonati come capita, malgrado le allarmanti etichette: “corrosivo”, “provoca ustioni”. Tutto incustodito, da autentici irresponsabili.


Il consiglio d’amministrazione della società per azioni cui la Regione ha delittuosamente affidato le terme di Sciacca lamenta di non avere soldi per gestire adeguatamente le strutture e geli impianti. Sarà vero (anzi lo è senz’altro). Tuttavia, a guardare queste foto, si capisce che la situazione è molto peggiore. Non sono solo i soldi a mancare.


Manca l’interesse, la cura, l’amore per il patrimonio termale. La sensazione è che da queste parti, a meno di 100 metri dagli uffici dirigenziali, siano anni che nessuno scende a controllare. Se i consiglieri non hanno i soldi per la benzina, possono andarci a piedi. Se non hanno i soldi per un lucchetto nuovo, basta che mi telefonino: in qualche cassetto, ne sono quasi sicuro, dovrei averne qualcuno.

mercoledì 10 settembre 2008

Chi ha paura di Mebrahtu?

Ma i saccensi sono razzisti? Non vi nascondo che l’ostilità nei confronti del centro d’accoglienza per immigrati di contrada Isabella mi ha stupito non poco. Sciacca ha una lunga tradizione di tolleranza e accoglienza, che fa a pugni con l’isterismo collettivo che sembra averla colpita. Io però rimango convinto che i saccensi non siano diventati di colpo intolleranti. Siamo una città di mare, da sempre più evoluta rispetto al contesto agrigentino, e non riesco ad accettare che ciò che è possibile a Montevago diventi impossibile da noi (come ha lodevolmente fatto notare il settimanale ControVoce).
Di sicuro ha contribuito la caccia all’extracomunitario che sembra essere l’unica politica sociale del nuovo governo, e il bombardamento mediatico che l’alimenta. I saccensi non hanno paura dei ragazzi e delle ragazze di contrada Isabella, ma sono terrorizzati da quello che la televisione racconta loro. Tuttavia m’illudo di conoscere ancora i miei concittadini. Diciamo che mi piace illudermi. Sono convinto che se conoscessero gli ospiti del centro, anziché osservarli attraverso lo specchio deformante dello schermo televisivo, se li conoscessero personalmente voglio dire, forse il loro atteggiamento cambierebbe. Io l’ho fatto. Un giorno, col mio amico pittore Franco Gulino, sono andato a parlare con alcuni di questi ragazzi. Ho ascoltato le loro storie. E alla fine ho pensato: se i miei amici saccensi li conoscessero, se li ascoltassero parlare, se sapessero i drammi da cui questi ragazzi di 17, 20, 24 anni sono scappati, sono sicuro che li inviterebbero a cena. Che organizzerebbero uno schiticchio insieme a loro. Che non ne avrebbero più paura.
Ho parlato con un ragazzo del Niger. Un tuareg per parte di padre. Avete presente i tuareg del deserto? (il Niger è quasi tutto un deserto) Erano i protagonisti di tanti film e romanzi d’avventura, e fumetti, di quando eravamo bambini. Ebbene, Abdulraman è un tuareg. Ha 17 anni ed è nato e cresciuto in un paese desertico preda da anni di una intermittente guerra civile. A volte si spara a volte si sta in pace. Lui ha perso la madre quand’era bambino, poi il padre in guerra, gli era rimasto un fratello che per un po’ l’ha aiutato, poi anche il fratello ha subito le conseguenze dell’ennesima recrudescenza di guerra civile. Ci ha rimesso una gamba, e con l’unica che gli è rimasta stava davanti alle chiese a chiedere l’elemosina. Abdulraman s’è trovato di fronte due alternative: imbracciare un fucile e arruolarsi in una qualche milizia oppure tentare la fortuna in Europa. E’ quello che ha fatto. Voi, al suo posto, come vi sareste comportati?
Poi ho conosciuto un ragazzone nigeriano (Nigeria, stavolta, non Niger). Alto e grosso ma con una faccia che tradisce i suoi 17 anni. Con la medicina tradizionale avevano provato a guarire una malattia cutanea (non sono un medico, ma sembrava una cosa tipo psoriasi). Gli stregoni della sua tribù s’erano convinti che la malattia fosse l’effetto di un incantesimo lanciatogli dalla tribù rivale dei Paga. Risultato: una gamba gonfia come un tronco d’albero e tante cicatrici sullo stomaco (tagli fatti con un coltello). Al Civico di Palermo gliel’hanno curata in tre giorni, a casa sua rischiava di perdere la gamba. Alla fine, per non finire vittima degli scontri tribali, è fuggito in Libia. Qui, per sei mesi, ha fatto il muratore per guadagnarsi i soldi con cui pagare il viaggio in Italia, ma come tanti altri s’è ritrovato truffato: gli avevano garantito uno stipendio, gli hanno dato due spiccioli. Parla solo inglese, appena arrivato in Italia ha provato a caricare il cellulare e chissà che tasto ha premuto. Adesso ce l’ha a morte con la Wind, che gli ha fregato un’intera ricarica.
Poi c’è Mebrahtu. Avete presente Harry Belafonte? Beh, più o meno è fatto come lui. Viene dall’Eritrea, parla un ottimo inglese. Colto, raffinato, elegante, ha un garbo e un’educazione fuori dal comune. Non avesse la pelle nera tante mamme di Sciacca parteciperebbero ad un’asta pur di averlo come genero. Tuttavia il suo problema, almeno in Eritrea, non era il colore della pelle. Ha un “difetto”, Mebrahtu: è un cristiano pentecostale. Pare che la cosa, al paese suo, non sia presa bene. Là sei accettato solo se cattolico, musulmano oppure ortodosso, le tre religioni ufficiali. Guai però ad essere pentecostali. Può capitarvi quello che è successo a Mebrahtu. Un giorno se ne stava con un gruppo di amici a leggere la Bibbia. Di nascosto. Una retata della polizia e tutti in galera. Lui c’è rimasto sei mesi. Pure la famiglia l’ha ripudiato. Esce dal carcere e gli tocca il servizio militare. Una cosa seria, da quelle parti, dove le guerre sono all’ordine del giorno. Anche qui viene beccato (terribile delitto) a leggere la sua Bibbia da pentecostale. Per punizione, lo sbattono sotto al sole: fermo lì, immobile, guai a te se ti muovi. Il sole dell’Eritrea, roba da morire d’insolazione. Lì prende la sua decisione. “Qui mi ammazzano” pensa, e varca il confine con il Sudan. Per qualche mese lavora a Khartoum, la capitale sudanese. Fa il bell boy in un albergo, trasporta le valigie. L’ho già detto: parla un ottimo inglese, con accento di Cambridge. La polizia però lo taglieggia. Lui e gli altri irregolari. O pagate il pizzo o vi sbattiamo in galera perché non avete documenti. Mebrahtu deve fuggire anche dal Sudan. La nuova destinazione è la civile Europa. Va in Libia e da lì arriva a Lampedusa. Infine in contrada Isabella. Dove scopre che proprio di lui, così garbato ed elegante, la gente ha paura. Ma davvero noi saccensi abbiamo paura di Mebrahtu?

H2 oooooooooohhhhh!

Leggo da Agrigento Notizie del 6 agosto, a firma di Giuseppe Recca: “Il presidente della Girgenti Acque, Giuseppe Giuffrida […] ha ribadito di avere trovato una situazione catastrofica a Sciacca e che la normalità si può raggiungere lentamente. Ed ha rilevato che a Sciacca non c'è una mappa della rete idrica e ogni intervento di riparazione presenta grosse difficoltà”.
Il tipo, Giuffrida, aveva appena discusso con l’amministrazione comunale di Sciacca della situazione di contrada San Marco, senz’acqua ormai da tempo immemorabile. E s’è giustificato così. Roba da far cadere le braccia. Il tipo, questa è la cosa drammatica, forse manco ha capito la gravità delle cose che ha detto.
Ha parlato da politico, sembrava un sindaco che s’è appena insediato e si giustifica con gli elettori scaricando le colpe sul predecessore e sui disastri che gli ha lasciato. Peccato che mister Giuffrida non sia né un sindaco né tanto meno un politico. Il tipo è l’amministratore di una società per azioni che ha partecipato ad un bando di gara pubblico per l’aggiudicazione di un servizio.
Questo significa tre cose: 1) che aveva il dovere di conoscere la situazione della rete idrica di Sciacca prima di partecipare alla gara e più ancora prima di mettere la sua firmetta in calce al contratto; 2) che se davvero non conosceva le reali condizioni della rete idrica saccense, non si capisce in base a quali elementi abbia presentato la sua offerta e il conseguente piano industriale; 3) che l’errore commesso dall’allora presidente della Provincia di Agrigento Enzo Fontana, avallato dai sindaci che hanno votato a favore (compreso il nostro compaesano Mario Turturici) si sta rivelando drammatico. Vi ricordate? Siccome al primo bando non aveva partecipato nessuno, si decise di ridurre a soli 5 milioni di euro la garanzie finanziarie necessarie per aggiudicarsi il servizio. Non ci voleva molto a capire che la Girgenti Acque, già in partenza, non avrebbe avuto i soldi per affrontare le tante emergenze e le altrettante “situazioni catastrofiche” delle reti idriche della nostra assetata provincia. A maggior ragione se il suo presidente, il tipo là, manco aveva idea di cosa si sarebbe trovato di fronte.
La verità è che la Girgenti Acque è stata costituita e s’è aggiudicata il servizio per mettere le mani sui finanziamenti comunitari che arriveranno. Di suo non sta apportando alcuna competenza in più rispetto all’EAS (anzi, sembra perfino più scarsa, a giudicare da come si sta coprendo di ridicolo a San Marco) né tanto meno le superiori capacità manageriali che i privati dicono di avere rispetto al pubblico. Vi ricordate Mario Turturici: la gestione dev’essere affidata ai privati perché sono più efficienti del pubblico. Si sta vedendo, eccome se si sta vedendo.

martedì 15 luglio 2008

Un sindaco con la puzza sotto... la finestra


Il primo cittadino di Sciacca, Mario Turturici, è di quelli che alla forma ci tengono. Cura l’abbigliamento (e fin qui tutti d’accordo: lo fa a spese sue). Va in giro con un’auto blu comprata subito dopo l’insediamento. Coi soldi che Rocco Forte avrebbe dovuto versare in oneri di urbanizzazione secondaria ha rifatto il prospetto del palazzo municipale.
Meno male che neppure i consiglieri comunali possono lamentarsi: hanno un’aula tutta nuova e perfino un tabellone luminoso per il voto elettronico che fa tanto Parlamento. Una cosa a cui il sindaco tiene tantissimo è il suo ufficio di gabinetto. Il mobilio se l’era già rifatto, adesso è il turno degli uffici veri e propri. Chiusi per ristrutturazione, sindaco e compagnia si sono trasferiti nell’ex collegio S. Anna, in via S. Caterina.

Poteva cercarsi un parcheggio come i comuni mortali? Poteva farsi i 30 metri a piedi che separano il municipio (dove assessori e consiglieri parcheggiano di straforo nell’atrio inferiore da poco restaurato) dalla nuova temporanea sede? Neanche per idea. E dire che sarebbe istruttivo girare per ore alla ricerca di un parcheggio in centro!
No. Lui s’è fatto riservare un parcheggio proprio accanto al portone del S. Anna. Ci sono delle belle strisce gialle e un cartello con su scritto: Riservato auto istituzionale. Qui, però, ha avuto un intoppo.
Come si vede nelle foto, il parcheggio era e rimane occupato da ben tre cassonetti dei rifiuti. Che i rapporti tra Mario Turturici (il sindaco) e la So.Ge.I.R. (la ditta che raccoglie i rifiuti) non fossero buoni, già si sapeva. Qui però si sfiora lo sfregio!
Per anni quei cassonetti sono stati proprio sotto la lapide che ricorda l’assassinio di Accursio Miraglia. Dopo anni di proteste alla fine furono spostati. Chi avrebbe mai pensato che, un giorno, quei cassonetti sarebbero finiti proprio nel parcheggio del sindaco?
La città si divide in due fazioni. Da una parte i cultori dell’antipolitica, che apprezzano il simbolismo della “munnizza” in uno spazio riservato alle istituzioni. Dall’altra i formalisti, che a questo spettacolo un po’ s’indignano.
E il sindaco? Di lui si dice che abbia un po’ la puzza sotto il naso. Forse era solo una diceria. Di sicuro, adesso, ce l’ha sotto la finestra.

lunedì 14 luglio 2008

Totò Cuffaro, paladino della Sicilia

Scrivono i giornali che Totò Cuffaro si sia buttato a capo fitto nel suo ruolo di parlamentare d’opposizione. “Difendo gli interessi della Sicilia – dice l’ex governatore – meglio dei deputati del PD”. Leggere questi articoli, è stato per me come un dejà vu. Vi ricordate di quando Umberto Bossi organizzò il raduno leghista sul Po? Ebbene, l’allora assessore regionale all’Agricoltura Totò Cuffaro annunciò di volersi recare a Comacchio con i prodotti tipici della nostra isola. Non so se poi davvero l’abbia fatto. Ricordo però che la cosa m’ispirò una storiella. Sono andato a ripescarla. L’idea che proprio Cuffaro s’ergesse a difensore della Sicilia mi faceva ridere già allora. Figuratevi oggi.
Ecco la storiella.
Degno di cavalcare accanto a Ettore, Enea e Lancillotto, il nostro più valente condottiero si è alfine gettato nella mischia. Totò Cuffaro, incurante delle minacce che i cavalieri di Alberto da Giussano gli lanciano dal loro tristo carroccio, sta già schierando i suoi fedeli a difesa delle insalubri acque di Comacchio.
Gli uomini, al principio, arretrano dinanzi allo schiumare dell’acqua. Sinistre affiorano dalla mefitica palude le teste di mille e mille serpi, quasi un’idra immensa si apprestasse ad emergere.
Totò Cuffaro è il solo a non indietreggiare. Roteando la spada si getta a capofitto nel mezzo delle acque ribollenti, e fa strage di serpi.
“Picciotti, anguille sono” è il suo trionfante grido si vittoria, al quale rispondono le urla di giubilo dei cavalieri, che subito si apprestano ad apparecchiare la mensa.
Ben presto le braci sono pronte, le anguille arrostite. I senza Dio locali ridacchiano ma si mantengono a distanza, ché hanno visto Totò Cuffaro in azione e temono la sua furia leggendaria.
“Perché ridete, oh senza Dio?” urla il cavaliere.
“Perché arrostite le anguille come se fossero salsicce” rispondono quelli, sempre a debita distanza ma sempre altresì piegati in due dalle risate.
Tanto sprezzante del pericolo quanto veloce nel battagliare in arguzia, Totò Cuffaro reagisce da par suo.
Con gesti rassicuranti invita i senza Dio ad avvicinarsi alla sua mensa.
“Prendete codesti frutti della nostra terra e del nostro lavoro” dice, porgendo ai senza Dio bigonce stracolme di fichi d’India.
“Mangiate pure” dice ad alta voce, perché tutti possano sentirlo. I senza Dio si gettano sulle bigonce e imprudenti addentano quei frutti.
Non l’avessero mai fatto! Ignari delle fiere spine che difendono la dolcezza del frutto, i barbari padani si contorcono dal dolore e corrono verso l’acqua a distaccar gli aculei dalla proprie lingue.
E’ la volta dei nostri cavalieri di ridere. Totò Cuffaro, tanto arguto quanto saggio, però li rimbrotta: “Mai bearsi dell’ignoranza che altri hanno delle nostre abitudini: i popoli sono fatti per vivere assieme e per scambiarsi esperienze, culture e appalti”.
Appresa la lezione e commossi da quelle parole, i senza Dio padani acclamano il nostro fiero cavaliere, e subito lo proclamano loro difensore.
Questo è il racconto di come Totò Cuffaro sconfisse le truppe di Alberto da Giussano, assai superiori di numero. Perché è bene ricordare che dove non possono il coraggio e la forza bruta riusciranno un cuore puro e i più degni argomenti.

domenica 13 luglio 2008

La mafia senza ricambi

La mafia sembra davvero alle corde. L’ennesima dimostrazione viene dall’operazione Scacco Matto. Molti dei comuni interessati hanno una lunga “tradizione” in fatto di onorata società. Ribera, Burgio, Sambuca di Sicilia, in generale il territorio del Belice. Paesi in cui storicamente sono esistite tutte le condizioni perché la mafia vi piantasse le radici: un’economia prevalentemente agricola, il latifondo sopravvissuto fino a pochi decenni fa.
Eppure basta dare un’occhiata ai curricula di alcuni degli indagati per accorgersi di come il lago in cui cosa nostra era abituata a sguazzare si sia ridotto ad uno stagno. I Capizzi di Ribera, loro, sono sempre gli stessi. Di padre in figlio, di nonno in nipote, inquirenti e investigatori sono costretti ad usare le date di nascita per distinguerli: Paolo Capizzi classe 1968, Paolo Capizzi classe 1940. In un’epoca in cui la famiglia tradizionale sembra in crisi, loro preservano usi e costumi d’altri tempi. Ma sono ormai una logora eccezione.
Gino Guzzo di Montevago, il presunto capo mandamento, era stato già coinvolto nel processo Avana, che colpì la cosca di Sciacca e dintorni nel 1993. Quindici anni fa. Idem per il capo mafia di Sciacca, Accursio Dimino. I due, Guzzo e Dimino, erano stati compagni di scuola. A Montevago il capomafia era Pino La Rocca, che però era anziano, non conosceva molti giovani e non riusciva a reclutare nessuno. Ci pensò Dimino a presentargli Guzzo: “E’ un amico, ti puoi fidare”. Fu così che Gino Guzzo divenne il guardiaspalle di Pino La Rocca.
Cosa nostra era ancora attraente, poteva ancora reclutare sangue fresco. Oggi non è più così. Al massimo, si ricorre a qualche parente. Con dei curiosi ribaltamenti. Gino Guzzo, anni fa, fu l’autista di Pino La Rocca. Oggi è lui ad avere come autista un altro Giuseppe La Rocca, nipote di quell’altro.
A Burgio, siamo di nuovo ai Davilla e a Giovanni Derelitto, per giunta suocero di uno dei Capizzi. Ancora loro. Sempre loro.
Non è un fenomeno che riguarda soltanto questo versante dell’agrigentino. Per decenni, Siculiana è stata ritenuta uno dei centri mafiosi più importanti. Patria dei Caruana, boss internazionali del narcotraffico. Poi si scoprì, due-tre anni fa, che da quelle parti i due uomini d’onore rimasti non riuscivano più a mettere in piedi una cosca. Per farlo bisogna essere almeno in tre. Dovettero farsi prestare un mafioso da un comune vicino.
Perfino “lui”, Matteo Messina Denaro, sembra in difficoltà. Lo scrisse di suo pugno a Bernardo Provenzano. Stava in un pizzino: “Qui stanno arrestando perfino le sedie”.
Un segno evidente della crisi di vocazione di cosa nostra, della sua mancanza di appeal, dell’incapacità di trovare nuove leve, viene proprio dall’aria nuova che si respira tra gli imprenditori. Loro, meglio di altri, sanno che i mafiosi sono sempre gli stessi. A Sciacca, tanto per dire, con gli uomini di Di Gangi in galera furono costretti a ricorrere ad un signore di 80 anni.
La vera grande paura di chi era costretto a denunciare cosa nostra stava nella proverbiale memoria lunga dell’associazione. Denunci un mafioso, i carabinieri lo arrestano ma fuori dal carcere ne rimangono a decine. Pronti a farti la pelle. Oggi non è più così. E’ più difficile che un Accursio Dimino trovi un compagno di scuola da reclutare.
Denunciate, gente, denunciate. Cosa nostra è alla frutta. Poche altre volte è stata in crisi come adesso. E’ il momento di approfittarne.

venerdì 11 luglio 2008

Storie di mafia da provincia profonda

“Quando gli imprenditori decidono di parlare, lo fanno per ore”. Sono le nove di sera, e un investigatore ha appena finito di ascoltare le testimonianze di diversi imprenditori del versante occidentale della provincia di Agrigento. Sente aria di svolta. Anche qui, nella Sicilia profonda. Pochi giorni prima, 4 di luglio, i Carabinieri di Sciacca e Agrigento avevano letteralmente decapitato almeno un paio di mandamenti mafiosi: 34 tra presunti uomini d’onore e loro fiancheggiatori erano finiti in galera. Non a caso l’operazione è stata denominata “Scacco matto”. Tre i magistrati impegnati nell’inchiesta: i Pm della DDA di Palermo Gianfranco Scarfò e Rita Fulantelli e il sostituto procuratore di Sciacca Salvatore Vella. L’ipotesi accusatoria, sostenuta da quasi tre anni di intercettazioni telefoniche e ambientali, descrive un capillare controllo dei subappalti nel settore delle opere pubbliche e anche in qualche grande investimento privato: l’acquedotto Favara di Burgio, diversi lavori stradali tra Sciacca e Menfi, il golf resort Verdura di sir Rocco Forte e altri investimenti turistici. Ipotesi che adesso trova conferme nelle deposizioni degli imprenditori. Non di tutti. Ci sono pure quelli che, sostiene l’investigatore, “negano l’evidenza”. Altri però confermano. E’ una novità assoluta, per questo versante dell’agrigentino. Nel capoluogo, prima e dopo l’arresto dell’ex capo mafia e oggi collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati, molti imprenditori avevano già deciso di denunciare i propri estortori. In prima fila, il presidente provinciale di Confindustria Giuseppe Catanzaro. La ribellione alla schiavitù del pizzo sfiora adesso il territorio del nuovo boss dei boss. Sciacca, il centro più importante, è a 30 chilometri da Castelvetrano. Il paese natale di Matteo Messina Denaro. Menfi, 11 mila abitanti ed ettari su ettari di magnifiche vigne, è ancora più vicino. E’ l’ultimo comune della provincia d’Agrigento. Di là del fiume Belice comincia quella di Trapani. Il “regno” di Messina Denaro. E’ una mafia che ancora fa paura. Molti dei presunti mafiosi colpiti dalle ordinanze di custodia hanno pedigree criminali di tutto rispetto. A Sciacca, per esempio, il capo mafia sarebbe Accursio Dimino. Negli anni ’80, quando ancora non si sapeva del suo ruolo in cosa nostra (non “ufficialmente”, almeno) fu addirittura socio di Massimo Maria Berruti in una ditta per la lavorazione della plastica con sede a Ribera. Berruti non era ancora parlamentare ma era già un uomo Fininvest vicinissimo a Silvio Berlusconi. Dimino è stato pazientemente in carcere più di dieci anni e vanta una vecchia collaborazione con Messina Denaro. E’ insomma una persona affidabile. Il super-boss lo stima. Parla bene di lui in un “pizzino” trovato nel casolare di Montagna dei Cavalli, dove fu arrestato Bernardo Provenzano. Appena uscito dal carcere gli offrono di fare il capo mandamento. Lui rifiuta. A quanto sembra, però, non rinuncia a riscuotere il pizzo. Al suo posto viene nominato Gino Guzzo. E’ di Montevago, in piena valle del Belice. Anche Gino Guzzo è da poco uscito dal carcere. E’ affidabile. Nelle intercettazioni lo chiamano il “dottore”, per via della laurea in Agraria. Il suo sogno è diventare massone. Si danna l’anima per riuscirci. Da sempre è a sua volta vicino a Messina Denaro. Gli uomini d’onore li chiama “cristiani”. E’ un capo mafia all’antica: posato, riflessivo. A chi gli chiede d’intervenire energicamente sugli imprenditori che non vogliono pagare, cristianamente risponde: “La vita è sacra”.
Tra gli arrestati c’è Mario Davilla di Burgio. A lui lo chiamavano il Cavaliere. Forse perché era un cavaliere templare, una sorta di loggia para-massonica. Nulla a che vedere, s’intende, con la massoneria ufficiale. Un tempo gestiva un impianto per la produzione del calcestruzzo tra Burgio e Ribera. Poi lo cedette a Gino Smeraglia di Ribera e andò a lavorare in Emilia ai cantieri dell’alta velocità. Tre anni fa l’avevano già arrestato per una serie di bancarotte fraudolente. Un’inchiesta della Guardia di Finanza denominata Clink Oil.
Una storia nota, quella del passaggio dell’impianto industriale da Davilla a Gino Smeraglia. Ciò tuttavia non aveva impedito a Smeraglia di lavorare in subappalto al golf resort Verdura di sir Rocco Forte. Malgrado il cosiddetto protocollo della legalità. Sottoscritto dall’impresa, dalla Prefettura d’Agrigento e dal Comune di Sciacca. Smeraglia lavorava senza problemi. Sembra che i suoi mezzi siano ancora in cantiere. Malgrado il provvedimento di fermo che lo ha colpito il 4 luglio scorso.
Ci sono stati diversi atti intimidatori, in Contrada Verdura. Dentro al cantiere di sir Rocco. Non sembra però che in tre anni d’intercettazioni se ne sia mai fatto cenno. E in effetti, se sono vere le ipotesi dell’accusa, le ditte vicine a cosa nostra già ci lavoravano. Perché avrebbero dovuto creare problemi, attirare l’attenzione degli inquirenti? E’ una nostra ipotesi, ma è probabile che quegli atti abbiano una diversa matrice.
Gino Smeraglia non è l’unico tra i fermati che lavorava in contrada Verdura. Anche il riberese Nino Montalbano stava lì. Faceva il guardiano, malgrado la parentela con i Capizzi. Sempre loro: i Capizzi. Famiglia d’antica tradizione mafiosa. Uno va uno viene dal carcere. Da generazioni.
Strane persone, i Capizzi. Temuti da tutti, fuori e dentro cosa nostra. Malgrado il loro peso specifico (sono tanti e quasi tutti nel giro) non sono mai riusciti a fare carriera. Quando c’è da nominare un capo mandamento, tocca sempre a qualcun altro. Fu così negli anni ’80, quando venne scelto l’allora capo mafia di Sciacca, Salvatore Di Gangi. Uno che non era neppure nato qui, veniva dalle Madonie. Adesso sono stati scavalcati da un signore che non ha certo il loro curriculum: tale Salvatore Imbornone da Lucca Sicula.
Non si fidano dei Capizzi. Neppure in cosa nostra. Un giorno l’imprenditore Campo di Menfi, tra i fermati, dà ai Capizzi 42 mila euro. Vuole fornire il calcestruzzo alla ditta che sta realizzando lavori stradali sulla Sciacca-Menfi. I Capizzi glielo garantiscono. Lui paga ma non ottiene nulla. Pare che quelli della ditta si fossere già accordati a Palermo. Il calcestruzzo se lo fanno da soli. Campo rivuole indietro i soldi, i Capizzi non ne vogliono sapere. Si manda qualcuno a mediare. E dire che non avevano neppure titolo per intervenire. I lavori non ricadevano nel loro territorio, perché allora s’erano intascati i soldi?
Sono fatti così, i Capizzi. Nessuno li ama, tutti li temono. Non possiedono qualità diplomatiche. Non guardano in faccia nessuno. Pretesero il pizzo perfino da Giuseppe Grigoli, quello della Despar di Castelvetrano. Benché Messina Denaro in persona si affannasse a far sapere loro che Grigoli era cosa sua. Chiedere il pizzo a Grigoli era come chiederlo a lui personalmente. Ma vacci a ragionare, con i Capizzi. Teste dure, teste da riberesi.
Per fortuna (almeno questo), sembra che le richieste di pizzo si limitassero alle grandi opere. Non è di moda, nei piccoli centri, l’estorsione porta a porta. E’ difficile, ci si conosce tutti. Ogni tanto, però, qualcuno ci provava. Per esempio il menfitano Vito Bucceri. Vuole fare le scarpe al capo mafia del paese, Antonino Pumilia. Lo ritiene un debole. Propone un diverso programma di governo. Funziona così: anche i mafiosi che aspirano ad una promozione fanno promesse da campagna elettorale. “Quando comanderò io, faremo il porta a porta. E chi non paga chiude”. Gli è andata male.
Quando però erano in ballo gli appalti più consistenti, le estorsioni non si fermavano neppure davanti all’amicizia. Né di fronte al grottesco. Un giorno, le microspie sull’automobile di un mafioso registrano in diretta un atto intimidatorio. C’è dà dar fuoco all’auto di un imprenditore. Viene incaricato uno che però è un suo amico. Suo fratello ha battezzato il figlio dell’imprenditore. Perde tempo, rinvia finché può. Alla fine è costretto. Fatto il “lavoro”, l’amico che gli fa da autista lo lascia e carica la moglie. La microspia continua a registrare. Il mafioso e la sua inconsapevole signora passano accanto al luogo dell’attentato. “Cos’è sta confusione?” chiede la moglie. Il marito annusa l’aria. Forse vuole far colpo. Risponde: “Dall’odore, sembra una macchina che brucia”.

sabato 5 luglio 2008

La sindrome di Paperopoli

Chi vive in provincia (e in Italia quasi tutti viviamo in provincia), pensa d'essere al centro del mondo. Una deformazione che diventa ancora più grave se la provincia è lontana da tutto. Come quella in cui vivo io, in Sicilia. Non si hanno riferimenti; le occasioni per confrontarsi con punti di vista diversi sono molto rare; spesso si finisce col confinarsi in una piccola cerchia di amici dove tutti, chi più chi meno, la pensano allo stesso modo.
Quel che è peggio, si finisce col credere che ciò che ci circonda, il piccolo mare nel quale "naufraghiamo", sia il mondo. L'unico dei mondi possibili, se non proprio il migliore. Non per scelta e neppure per una malintesa forma d'arroganza. Semplicemente perché non si conosce altro.
Così, ad esempio, si finisce per credere onnipotenti i piccoli boss di paese. Buona parte del potere della mafia deriva dagli orizzonti ristretti di chi ne subisce l'influenza. Se don Pinco Pallino è tanto potente nel mio paesello, e se il mio paesello è tutto il mondo che conosco, ergo la potenza di don Pinco Pallino deve per forza estendersi al mondo intero.
Vale per i mafiosi, vale altresì per ogni categoria di persone. E' molto facile, in provincia, diventare "storici", "scrittori", "artisti", "giornalisti" e così via. Basta dire di esserlo. Si scrive un qualsiasi libro di storia locale, anche infarcito di errori e inesattezze, e subito si viene classificati come storici. Ci si crede storici, e si va in giro a testa alta, disprezzando l'altrui ignoranza.
La provincia è piena di pittori da due soldi, di poeti da strapazzo, di scrittori del cavolo che si bastano da soli. Che si accontentano della piccola fama che il paesello tributa loro. Perché il paesello è il mondo. Io la chiamo la sindrome di Paperopoli.
C'è tutto, a Paperopoli. Ogni tipo d'industria, a dispetto della divisione internazionale del lavoro. Ogni tipo d'ambiente naturale: nevica oppure fa un caldo boia, a seconda delle esigenze narrative. Di dov'è l'uomo più ricco del mondo? Di Paperopoli. E il secondo uomo più ricco del mondo? Di Paperopoli, di dove se no? E il più geniale inventore di tutti i tempi? Non è forse anch'egli di Paperopoli?
Ecco spiegato il nome di questo blog. Vivo in provincia. Scrivo un blog. Ergo, sono il migliore autore di blog di tutta quanta Paperopoli. Volevo dire, del mondo.