martedì 6 dicembre 2016

Po po po po po polo

Perché nessuno riesce più a governare? Perché i partiti storici del Novecento hanno visto drasticamente ridursi i propri consensi elettorali, fino a percentuali che al meglio superano di poco il trenta per cento?
Fosse solo Renzi, il problema, o l’Italia, (l’eterna “malata d’Europa”) la risposta sarebbe semplice: “Perché l’Italia è l’Italia”, come disse qualche anno fa il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, commentando l’interminabile susseguirsi di crisi di governo nel nostro Paese (https://www.youtube.com/watch?v=RFZz0vPX6jA).
Fenomeni simili, tuttavia, stanno accadendo anche in altre democrazie occidentali, molte delle quali ben più solide e mature della nostra. Gli unici paesi che fanno eccezione sono il Giappone e la Germania.
La Germania è il paese con la cultura istituzionale più forte, che le consente di avere un governo “a prescindere”. L’anno prossimo, quando si rivoterà, la Merkel sarà rieletta cancelliere indipendentemente da quanti voti perderà. Neppure adesso ha la maggioranza assoluta, tant’è che governa insieme ai socialdemocratici in quella che i tedeschi chiamano Grosse Koalition. In Germania danno per scontato che il partito che prende più voti governa, se occorre col sostegno parlamentare di chi è arrivato secondo. Da quelle parti non è una novità.
Non lasciatevi ingannare dai recenti successi dei populisti tedeschi, per quanto ragguardevoli essi siano. La Germania, con tutti i suoi difetti, è uno dei paesi più egualitari del mondo e non ha mai davvero ceduto alle sirene del neo-liberalismo. Il populismo razzista e xenofobo è un fenomeno che riguarda soprattutto la sua parte orientale. Ci si dimentica troppo spesso che appena venticinque anni fa l’ex Repubblica Federale (la Germania Ovest) ha inglobato la disastrata parte orientale, la DDR. Il populismo tedesco non è di stampo occidentale. E’ semmai affine a quello polacco o ungherese, frutto avvelenato della riconversione forzata delle economie sovietico-socialiste.
Anche il Giappone ha saputo difendersi dall’onda neo-liberalista. E siccome ogni paese ha la sua storia e le sue tradizioni, l’ha fatto a modo proprio. I giapponesi continuano a cambiare governo quanto e quando gli pare, perché non è dal governo che dipende la stabilità istituzionale del paese. E’ il conglomerato industriale che garantisce a tutti un lavoro e uno stile di vita decente. E se ne fregano, i giapponesi, d’avere uno dei debiti pubblici più alti del mondo (si aggira intorno al 240% per cento, da fare impallidire perfino il nostro). Sono talmente strani, i giapponesi, confinati come sono nelle loro remote isole, da avere perfino istituzionalizzato la mafia. La yakuza ha uffici e sedi ufficiali, con tanto di insegna, pur essendo di diritto fuorilegge.
Sono i paesi in cui, negli ultimi decenni, l’ineguaglianza sociale è letteralmente esplosa in nome delle ricette economiche neoliberiste che il populismo sta facendo davvero presa. E in quelli con un passato imperialista. In entrambi i casi, non può essere un caso.
Gli Stati uniti, la Gran Bretagna, l’Italia. Trump, Brexit, Grillo. Sono i tre paesi occidentali con il più alto tasso d’ineguaglianza sociale, ovvero con la più ampia differenza tra la ricchezza dei più ricchi e quella dei più poveri. In America, i repubblicani hanno di fatto assorbito le spinte populiste (il Tea Party prima, adesso Donald Trump). Lo hanno fatto assecondando l’onda e diventando populisti a loro volta (cosa non si farebbe per conservare il potere in mano alle élite!).
L’ironia, in questa storia, è che il termine “populismo” nacque proprio negli Stati uniti. Era il 1890, e per reagire alla corruzione delle élite nacque il People’s Party, il partito del popolo (vedi Michael Kazin, Trump and American Populism, Foreign Affairs, Novembre-Dicembre 2016). Populisti (populists, in inglese) era il nome che veniva dato ai loro sostenitori. In quell’occasione fu il partito democratico, la sinistra, a inglobarli. E’ certo un segno dei tempi che oggi stia accadendo il contrario.
In Gran Bretagna, i conservatori stanno disperatamente cercando di non farsi travolgere da Brexit. Al loro interno sono divisi: alcuni hanno votato per Brexit, altri per rimanere nell’Unione europea (compresa il primo ministro Theresa May). Altri ancora, come quel pallone gonfiato dell’ex sindaco di Londra Boris Johnson, avendo trascorso l’intera sua esistenza nella bolla d’aria in cui vivono gli inglesi d’alto censo, ha sostenuto Brexit pur essendo europeista perché si diverte un mondo a pigliare per i fondelli i poveri (sembra brutale, ma è la pura e semplice verità).
Il risultato è che i conservatori devono assecondare la maggioranza degli inglesi che ha votato per Brexit senza sapere che pesci pigliare, peggio ancora non conoscendo per nulla (anzi schifiando) le persone che sostengono di rappresentare.
Il fatto è che gli inglesi hanno un problema. Sono ancora convinti che la loro ricchezza dipenda dal loro genio, dalla macchina a vapore, dalla rivoluzione industriale e così via. Dipendeva invece dal loro esercito, e dal fatto che per circa un secolo, grazie al potere delle armi, abbiano controllato un quarto del pianeta: nel 1914, la Gran Bretagna dominava, attraverso le colonie, il 24 per cento della popolazione mondiale (vedi Branko Milanovic, Global Inequality, Harvard University Press). E’ dura, per loro, rendersi conto che oggi non contano più una mazza.
La Francia, a sua volta, controllava il 6 per cento del mondo. Ne ha goduti i benefici, finché è durata. Crollato l’impero, le sono rimasti in dote gli immigrati dalle ex-colonie e le banlieues in cui li hanno stipati. La sua classe dirigente, presa dal panico, sta oggi tentando di rispondere all’estrema destra di Le Pen con quella appena meno estrema di François Fillon. Un esperimento di mimetizzazione politica che non promette nulla di buono.
Infine l’Italia, povero paese mio. Piccolo vaso di coccio, il cui passato coloniale è una barzelletta in confronto a quello inglese, francese o americano. Italia, regno della piccola borghesia, culla d’ogni peggiore populismo (v’invito caldamente a leggere “Populismo e trasformismo” di Carlo Tullio Altan, il padre del vignettista, Feltrinelli, 1989). Abbiamo donato al mondo grandi opere d’ingegno ma anche D’Annunzio e Mussolini, i modelli di Adolf Hitler. Perfino Silvio Berlusconi, che ha preceduto Donald Trump di almeno due decenni.
Anche noi siamo stati travolti dall’onda neo-liberista. Che non è tanto consistita in un assalto allo stato sociale per così dire ufficiale, che pure c’è stato, quanto nello smantellamento di quello para-ufficiale, ovvero nella privatizzazione degli enti parastatali (poste, ENEL, SIP, ministeri, sanità, scuola e così via) che avevano rappresentato la via italiana all’eguaglianza sociale.
Una via italiana di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze: dal 1982 al 1990, gli anni in cui l’Italia divenne la quinta potenza economica del mondo, il nostro debito pubblico aumentò dal 51 al 102 per cento (vedi Andrea Brandolini e Giovanni Vecchi, Il benessere degli italiani: un approccio storico-comparativo, Quaderni di storia economica della Banca d’Italia, Ottobre 2011).
Aggiungete a questo il fenomeno più generale della crescita delle disuguaglianze sociali e della riduzione dei trasferimenti dal centro che ha reso ancora più evidente l’inefficienza delle classe dirigenti meridionali (con l’ovvia conseguenza di rendere più acute ed evidenti le disparità territoriali), dopo di che non avrete bisogno di essere né professori universitari né scienziati della politica per comprendere le ragioni del malcontento sociale e i motivi della vittoria del no al referendum costituzionale.
O davvero credete che gli italiani, di colpo e all’improvviso, siano diventati tutti costituzionalisti o appassionati lettori di Gustavo Zagrebuttanesk… ma come minchia si scrive?

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