Perché nessuno riesce più a governare? Perché i partiti storici del Novecento hanno visto drasticamente ridursi i propri consensi elettorali, fino a percentuali che al meglio superano di poco il trenta per cento?
Fosse solo Renzi, il problema, o l’Italia, (l’eterna “malata d’Europa”) la risposta sarebbe semplice: “Perché l’Italia è l’Italia”, come disse qualche anno fa il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, commentando l’interminabile susseguirsi di crisi di governo nel nostro Paese (https://www.youtube.com/watch?v=RFZz0vPX6jA).
Fenomeni simili, tuttavia, stanno accadendo anche in altre democrazie occidentali, molte delle quali ben più solide e mature della nostra. Gli unici paesi che fanno eccezione sono il Giappone e la Germania.
La Germania è il paese con la cultura istituzionale più forte, che le consente di avere un governo “a prescindere”. L’anno prossimo, quando si rivoterà, la Merkel sarà rieletta cancelliere indipendentemente da quanti voti perderà. Neppure adesso ha la maggioranza assoluta, tant’è che governa insieme ai socialdemocratici in quella che i tedeschi chiamano Grosse Koalition. In Germania danno per scontato che il partito che prende più voti governa, se occorre col sostegno parlamentare di chi è arrivato secondo. Da quelle parti non è una novità.
Non lasciatevi ingannare dai recenti successi dei populisti tedeschi, per quanto ragguardevoli essi siano. La Germania, con tutti i suoi difetti, è uno dei paesi più egualitari del mondo e non ha mai davvero ceduto alle sirene del neo-liberalismo. Il populismo razzista e xenofobo è un fenomeno che riguarda soprattutto la sua parte orientale. Ci si dimentica troppo spesso che appena venticinque anni fa l’ex Repubblica Federale (la Germania Ovest) ha inglobato la disastrata parte orientale, la DDR. Il populismo tedesco non è di stampo occidentale. E’ semmai affine a quello polacco o ungherese, frutto avvelenato della riconversione forzata delle economie sovietico-socialiste.
Anche il Giappone ha saputo difendersi dall’onda neo-liberalista. E siccome ogni paese ha la sua storia e le sue tradizioni, l’ha fatto a modo proprio. I giapponesi continuano a cambiare governo quanto e quando gli pare, perché non è dal governo che dipende la stabilità istituzionale del paese. E’ il conglomerato industriale che garantisce a tutti un lavoro e uno stile di vita decente. E se ne fregano, i giapponesi, d’avere uno dei debiti pubblici più alti del mondo (si aggira intorno al 240% per cento, da fare impallidire perfino il nostro). Sono talmente strani, i giapponesi, confinati come sono nelle loro remote isole, da avere perfino istituzionalizzato la mafia. La yakuza ha uffici e sedi ufficiali, con tanto di insegna, pur essendo di diritto fuorilegge.
Sono i paesi in cui, negli ultimi decenni, l’ineguaglianza sociale è letteralmente esplosa in nome delle ricette economiche neoliberiste che il populismo sta facendo davvero presa. E in quelli con un passato imperialista. In entrambi i casi, non può essere un caso.
Gli Stati uniti, la Gran Bretagna, l’Italia. Trump, Brexit, Grillo. Sono i tre paesi occidentali con il più alto tasso d’ineguaglianza sociale, ovvero con la più ampia differenza tra la ricchezza dei più ricchi e quella dei più poveri. In America, i repubblicani hanno di fatto assorbito le spinte populiste (il Tea Party prima, adesso Donald Trump). Lo hanno fatto assecondando l’onda e diventando populisti a loro volta (cosa non si farebbe per conservare il potere in mano alle élite!).
L’ironia, in questa storia, è che il termine “populismo” nacque proprio negli Stati uniti. Era il 1890, e per reagire alla corruzione delle élite nacque il People’s Party, il partito del popolo (vedi Michael Kazin, Trump and American Populism, Foreign Affairs, Novembre-Dicembre 2016). Populisti (populists, in inglese) era il nome che veniva dato ai loro sostenitori. In quell’occasione fu il partito democratico, la sinistra, a inglobarli. E’ certo un segno dei tempi che oggi stia accadendo il contrario.
In Gran Bretagna, i conservatori stanno disperatamente cercando di non farsi travolgere da Brexit. Al loro interno sono divisi: alcuni hanno votato per Brexit, altri per rimanere nell’Unione europea (compresa il primo ministro Theresa May). Altri ancora, come quel pallone gonfiato dell’ex sindaco di Londra Boris Johnson, avendo trascorso l’intera sua esistenza nella bolla d’aria in cui vivono gli inglesi d’alto censo, ha sostenuto Brexit pur essendo europeista perché si diverte un mondo a pigliare per i fondelli i poveri (sembra brutale, ma è la pura e semplice verità).
Il risultato è che i conservatori devono assecondare la maggioranza degli inglesi che ha votato per Brexit senza sapere che pesci pigliare, peggio ancora non conoscendo per nulla (anzi schifiando) le persone che sostengono di rappresentare.
Il fatto è che gli inglesi hanno un problema. Sono ancora convinti che la loro ricchezza dipenda dal loro genio, dalla macchina a vapore, dalla rivoluzione industriale e così via. Dipendeva invece dal loro esercito, e dal fatto che per circa un secolo, grazie al potere delle armi, abbiano controllato un quarto del pianeta: nel 1914, la Gran Bretagna dominava, attraverso le colonie, il 24 per cento della popolazione mondiale (vedi Branko Milanovic, Global Inequality, Harvard University Press). E’ dura, per loro, rendersi conto che oggi non contano più una mazza.
La Francia, a sua volta, controllava il 6 per cento del mondo. Ne ha goduti i benefici, finché è durata. Crollato l’impero, le sono rimasti in dote gli immigrati dalle ex-colonie e le banlieues in cui li hanno stipati. La sua classe dirigente, presa dal panico, sta oggi tentando di rispondere all’estrema destra di Le Pen con quella appena meno estrema di François Fillon. Un esperimento di mimetizzazione politica che non promette nulla di buono.
Infine l’Italia, povero paese mio. Piccolo vaso di coccio, il cui passato coloniale è una barzelletta in confronto a quello inglese, francese o americano. Italia, regno della piccola borghesia, culla d’ogni peggiore populismo (v’invito caldamente a leggere “Populismo e trasformismo” di Carlo Tullio Altan, il padre del vignettista, Feltrinelli, 1989). Abbiamo donato al mondo grandi opere d’ingegno ma anche D’Annunzio e Mussolini, i modelli di Adolf Hitler. Perfino Silvio Berlusconi, che ha preceduto Donald Trump di almeno due decenni.
Anche noi siamo stati travolti dall’onda neo-liberista. Che non è tanto consistita in un assalto allo stato sociale per così dire ufficiale, che pure c’è stato, quanto nello smantellamento di quello para-ufficiale, ovvero nella privatizzazione degli enti parastatali (poste, ENEL, SIP, ministeri, sanità, scuola e così via) che avevano rappresentato la via italiana all’eguaglianza sociale.
Una via italiana di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze: dal 1982 al 1990, gli anni in cui l’Italia divenne la quinta potenza economica del mondo, il nostro debito pubblico aumentò dal 51 al 102 per cento (vedi Andrea Brandolini e Giovanni Vecchi, Il benessere degli italiani: un approccio storico-comparativo, Quaderni di storia economica della Banca d’Italia, Ottobre 2011).
Aggiungete a questo il fenomeno più generale della crescita delle disuguaglianze sociali e della riduzione dei trasferimenti dal centro che ha reso ancora più evidente l’inefficienza delle classe dirigenti meridionali (con l’ovvia conseguenza di rendere più acute ed evidenti le disparità territoriali), dopo di che non avrete bisogno di essere né professori universitari né scienziati della politica per comprendere le ragioni del malcontento sociale e i motivi della vittoria del no al referendum costituzionale.
O davvero credete che gli italiani, di colpo e all’improvviso, siano diventati tutti costituzionalisti o appassionati lettori di Gustavo Zagrebuttanesk… ma come minchia si scrive?
Un blog di Alberto Montalbano
martedì 6 dicembre 2016
martedì 29 novembre 2016
Ho votato sì. Ma vaffanculo a Renzi
Mi sento di esprimere tutta la mia solidarietà ai socialisti francesi, e in modo particolare ai loro elettori. Traditi dall’ignavia di quel bugiardo voltagabbana di Hollande, fra pochi mesi si troveranno davanti a una vera e propria alternativa del diavolo. Non avete idea di quanto li capisca.
Dovranno scegliere se mandare all’Eliseo la reazionaria populista Marine Le Pen o il reazionario tecnocratico François Fillon. Oppure se rimanere a casa e assistere sgomenti alla vittoria dell’una o dell’altro: della soi-disant nouvelle Marianne, islamofobica e anti-europeista, ovvero dell’ammiratore della Thatcher che sogna di licenziare i dipendenti pubblici, tagliare le tasse ai ricchi e aumentare l’orario di lavoro.
I conservatori non hanno di questi problemi. Hanno scelto il più a destra fra i galli del loro pollaio per togliere voti al Front National, sperando poi di lucrare qualche voto socialista al secondo turno e di ripetere ciò che riuscì a Jacques Chirac nel 2002, quando al ballottaggio si trovò di fronte Le Pen padre. Chirac, tuttavia, non era Fillon. Conservatore ma non reazionario, era una pillola meno amara da mandare giù per un elettore socialista spaventato dall’alternativa lepenista.
Com’è spesso accaduto in passato, la marea populista travolge i corpi intermedi, dai sindacati alla stampa alla magistratura (idolatrata ma solo quando e finché serve), e produce governi reazionari.
Negli Stati uniti, almeno a giudicare dal boom di Wall Street, i magnati della finanza non sembrano granché preoccupati dal vaffanculo che, a detta di Grillo e di altri, il popolo americano ha urlato loro in faccia. Semmai pregustano i tagli alle tasse e la deregulation promessi da Donald Trump. D’altra parte, se il Partito Democratico non ha le antenne per capire ciò che succede e in piena deriva anti-establishment sceglie la candidata più establishment che c’era…
In Gran Bretagna, dopo Brexit, il partito conservatore ha visto crescere i propri consensi, al punto che nei sondaggi guidano con sedici punti di vantaggio sui laburisti. Sarà certo merito loro, ma forse non aiuta il fatto che Jeremy Corbyn abbia dovuto passare il suo primo anno da leader laburista a difendersi dalle mozioni di sfiducia dei suoi stessi parlamentari cosiddetti moderati.
In Spagna, il conservatore Mariano Rajoy è stato rieletto primo ministro grazie alla forzata astensione dei socialisti, costretti a cedere al ricatto dopo ben due elezioni inconcludenti e dopo che quelli di Podemos, per preservare una ridicola purezza, avevano mandato a carte quarantotto tutte le speranze che anch’io avevo risposto in loro e s’erano rifiutati di appoggiare un governo a guida socialista (caso mai qualcuno pensasse che l’Italia abbia il monopolio degli idioti alla Bertinotti, il genio delle strategie di lunghissima durata che fece cadere il governo Prodi, regalandoci nell’ordine Silvio Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi).
Gli elettori populisti non sono marziani. Alcuni sono reazionari e perfino razzisti da sempre. Altri sono ex-elettori di sinistra, che si sono sentiti dimenticati se non colpevolizzati dai politici per cui avevano votato, e hanno scelto di ribellarsi oppure di astenersi. Sono esattamente questi, gli elettori che stanno facendo la differenza.
Prendiamo Renzi. Nel giro di niente è riuscito a dilapidare il consenso del 40% che aveva preso alle ultime europee, incaponendosi in riforme ridicole come la “buona scuola” o il job’s act che gli saranno forse serviti a ingraziarsi la Merkel e i fantomatici “mercati internazionali”, ma che di sicuro gli hanno alienato il consenso della base elettorale del PD (sempre ammesso che ancora esista). Viene davvero da chiedersi in quale tipo di bolla vivano, certe persone.
In un delirio d’impotente onnipotenza, il suddetto Renzi ha scommesso le sorti del suo governo su un referendum costituzionale che definire da sbullonati è poco. E lo dice uno che è veramente spaventato da ciò che sta accadendo in Europa da aver deciso di fare sempre e comunque il contrario di ciò che dice Beppe Grillo, il populista da yacht club che, un po’ per prendersi i soldi che spettano ai gruppi parlamentari europei e un po’ anche per corrispondenza d’amorosi sensi, s'è alleato con Nigel Farage, l’ex-broker della City diventato prima milionario e poi difensore dei poveri che vorrebbe cacciarmi dal paese in cui vivo. Lo dice uno che pur di non fare come chi inneggia a Donald Trump e a Vladimir Putin, ha deciso alla fine, da piccolo elettore in ostaggio della destra, della sinistra e dei populisti, di votare sì al referendum in questione.
Caro presidente Matteo Renzi. Ho votato sì obtorto collo al tuo referendum del cavolo. Si allega alla presente un franco, democratico e anti-populista vaffanculo.
Dovranno scegliere se mandare all’Eliseo la reazionaria populista Marine Le Pen o il reazionario tecnocratico François Fillon. Oppure se rimanere a casa e assistere sgomenti alla vittoria dell’una o dell’altro: della soi-disant nouvelle Marianne, islamofobica e anti-europeista, ovvero dell’ammiratore della Thatcher che sogna di licenziare i dipendenti pubblici, tagliare le tasse ai ricchi e aumentare l’orario di lavoro.
I conservatori non hanno di questi problemi. Hanno scelto il più a destra fra i galli del loro pollaio per togliere voti al Front National, sperando poi di lucrare qualche voto socialista al secondo turno e di ripetere ciò che riuscì a Jacques Chirac nel 2002, quando al ballottaggio si trovò di fronte Le Pen padre. Chirac, tuttavia, non era Fillon. Conservatore ma non reazionario, era una pillola meno amara da mandare giù per un elettore socialista spaventato dall’alternativa lepenista.
Com’è spesso accaduto in passato, la marea populista travolge i corpi intermedi, dai sindacati alla stampa alla magistratura (idolatrata ma solo quando e finché serve), e produce governi reazionari.
Negli Stati uniti, almeno a giudicare dal boom di Wall Street, i magnati della finanza non sembrano granché preoccupati dal vaffanculo che, a detta di Grillo e di altri, il popolo americano ha urlato loro in faccia. Semmai pregustano i tagli alle tasse e la deregulation promessi da Donald Trump. D’altra parte, se il Partito Democratico non ha le antenne per capire ciò che succede e in piena deriva anti-establishment sceglie la candidata più establishment che c’era…
In Gran Bretagna, dopo Brexit, il partito conservatore ha visto crescere i propri consensi, al punto che nei sondaggi guidano con sedici punti di vantaggio sui laburisti. Sarà certo merito loro, ma forse non aiuta il fatto che Jeremy Corbyn abbia dovuto passare il suo primo anno da leader laburista a difendersi dalle mozioni di sfiducia dei suoi stessi parlamentari cosiddetti moderati.
In Spagna, il conservatore Mariano Rajoy è stato rieletto primo ministro grazie alla forzata astensione dei socialisti, costretti a cedere al ricatto dopo ben due elezioni inconcludenti e dopo che quelli di Podemos, per preservare una ridicola purezza, avevano mandato a carte quarantotto tutte le speranze che anch’io avevo risposto in loro e s’erano rifiutati di appoggiare un governo a guida socialista (caso mai qualcuno pensasse che l’Italia abbia il monopolio degli idioti alla Bertinotti, il genio delle strategie di lunghissima durata che fece cadere il governo Prodi, regalandoci nell’ordine Silvio Berlusconi, Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi).
Gli elettori populisti non sono marziani. Alcuni sono reazionari e perfino razzisti da sempre. Altri sono ex-elettori di sinistra, che si sono sentiti dimenticati se non colpevolizzati dai politici per cui avevano votato, e hanno scelto di ribellarsi oppure di astenersi. Sono esattamente questi, gli elettori che stanno facendo la differenza.
Prendiamo Renzi. Nel giro di niente è riuscito a dilapidare il consenso del 40% che aveva preso alle ultime europee, incaponendosi in riforme ridicole come la “buona scuola” o il job’s act che gli saranno forse serviti a ingraziarsi la Merkel e i fantomatici “mercati internazionali”, ma che di sicuro gli hanno alienato il consenso della base elettorale del PD (sempre ammesso che ancora esista). Viene davvero da chiedersi in quale tipo di bolla vivano, certe persone.
In un delirio d’impotente onnipotenza, il suddetto Renzi ha scommesso le sorti del suo governo su un referendum costituzionale che definire da sbullonati è poco. E lo dice uno che è veramente spaventato da ciò che sta accadendo in Europa da aver deciso di fare sempre e comunque il contrario di ciò che dice Beppe Grillo, il populista da yacht club che, un po’ per prendersi i soldi che spettano ai gruppi parlamentari europei e un po’ anche per corrispondenza d’amorosi sensi, s'è alleato con Nigel Farage, l’ex-broker della City diventato prima milionario e poi difensore dei poveri che vorrebbe cacciarmi dal paese in cui vivo. Lo dice uno che pur di non fare come chi inneggia a Donald Trump e a Vladimir Putin, ha deciso alla fine, da piccolo elettore in ostaggio della destra, della sinistra e dei populisti, di votare sì al referendum in questione.
Caro presidente Matteo Renzi. Ho votato sì obtorto collo al tuo referendum del cavolo. Si allega alla presente un franco, democratico e anti-populista vaffanculo.
lunedì 28 novembre 2016
Dalla padella alla brace
Che strani campioni si sceglie, la classe operaia! Ripudiati e un po’ schifiati dalla sinistra cosiddetta ufficiale, i colletti blu americani hanno deciso di ribellarsi alla tirannia della plutocrazia e della finanza globale e, in uno straordinario esercizio di vaffanculismo autolesionistico, hanno votato per un super-plutocrate.
Donald Trump, a parole, vorrebbe che l’America tornasse agli americani. Muri anti-immigrati, dazi doganali, la fine della globalizzazione, un calcio nel sedere alle élite finanziarie: queste sono state le sue promesse.
I suoi atti, prima ancora del giuramento presidenziale, stanno andando tuttavia in senso opposto. Ha invitato e s’è fatto fotografare con degli imprenditori indiani di cui è socio in affari; ha nominato tra i suoi consiglieri un finanziere d’ultradestra che ha fatto i soldi con le bancarotte altrui; ha lasciato che i suoi figli incontrassero nei loro uffici della Trump Tower mister Jose E. B. Antonio, un miliardario filippino che insieme alla famiglia del neo-presidente americano sta costruendo non una ma ben due Trump Towers in quel di Manila, un investimento da 150 milioni di dollari. Vale la pena ricordare che Mr. Antonio, nel frattempo, era stato nominato inviato speciale negli Stati uniti dal presidente delle Filippine, l’arci-populista Rodrigo Duterte, quello che ha basato il suo consenso sugli squadroni della morte che ammazzano gli spacciatori.
Già che c’era, Donald Trump ha chiesto un piccolo favore a Nigel Farage, l’ex-leader degli ultra-nazionalisti inglesi che è stato il primo politico britannico a meritarsi l’onore di un invito. Gli ha chiesto se, già che c’era, poteva spingere il suo partito a bloccare la realizzazione di alcune turbine a vento che danneggeranno il panorama del suo golf resort scozzese.
Del resto, la rivolta contro le élite inglesi che ha prodotto Brexit è stata spinta e talvolta guidata dalla gran parte dei giornali britannici (dal Sun al Daily Mail al Daily Telegraph) che sono di proprietà di ultra-miliardari dal patriottismo un po’ a singhiozzo: con una mano sventolano la bandiera britannica, con l’altra pagano le tasse nei paradisi fiscali caraibici.
E la Francia? Non è forse leader dell’anti-politica la figlia di un parlamentare di lunghissima data?
Questo è, nella sua essenza e soprattutto nei suoi effetti, il populismo: un salto dalla padella alla brace.D'altra parte, se chi avrebbe gli strumenti per ridurre il disagio sociale non lo fa, quale alternativa rimane a chi non sa più dove sbattere la testa?
Donald Trump, a parole, vorrebbe che l’America tornasse agli americani. Muri anti-immigrati, dazi doganali, la fine della globalizzazione, un calcio nel sedere alle élite finanziarie: queste sono state le sue promesse.
I suoi atti, prima ancora del giuramento presidenziale, stanno andando tuttavia in senso opposto. Ha invitato e s’è fatto fotografare con degli imprenditori indiani di cui è socio in affari; ha nominato tra i suoi consiglieri un finanziere d’ultradestra che ha fatto i soldi con le bancarotte altrui; ha lasciato che i suoi figli incontrassero nei loro uffici della Trump Tower mister Jose E. B. Antonio, un miliardario filippino che insieme alla famiglia del neo-presidente americano sta costruendo non una ma ben due Trump Towers in quel di Manila, un investimento da 150 milioni di dollari. Vale la pena ricordare che Mr. Antonio, nel frattempo, era stato nominato inviato speciale negli Stati uniti dal presidente delle Filippine, l’arci-populista Rodrigo Duterte, quello che ha basato il suo consenso sugli squadroni della morte che ammazzano gli spacciatori.
Già che c’era, Donald Trump ha chiesto un piccolo favore a Nigel Farage, l’ex-leader degli ultra-nazionalisti inglesi che è stato il primo politico britannico a meritarsi l’onore di un invito. Gli ha chiesto se, già che c’era, poteva spingere il suo partito a bloccare la realizzazione di alcune turbine a vento che danneggeranno il panorama del suo golf resort scozzese.
Del resto, la rivolta contro le élite inglesi che ha prodotto Brexit è stata spinta e talvolta guidata dalla gran parte dei giornali britannici (dal Sun al Daily Mail al Daily Telegraph) che sono di proprietà di ultra-miliardari dal patriottismo un po’ a singhiozzo: con una mano sventolano la bandiera britannica, con l’altra pagano le tasse nei paradisi fiscali caraibici.
E la Francia? Non è forse leader dell’anti-politica la figlia di un parlamentare di lunghissima data?
Questo è, nella sua essenza e soprattutto nei suoi effetti, il populismo: un salto dalla padella alla brace.D'altra parte, se chi avrebbe gli strumenti per ridurre il disagio sociale non lo fa, quale alternativa rimane a chi non sa più dove sbattere la testa?
Dice il saggio
L’emergere del populismo, dappertutto in Europa e adesso perfino nella più grande potenza mondiale, viene visto dalle élite tradizionali, soprattutto da quelle liberali e di sinistra, come un rischio esiziale per la democrazia-come-la-conosciamo.
Per difendere la democrazia, spiega il saggio, da americani dobbiamo giocoforza votare Hillary Clinton perché Donald Trump sarebbe una sciagura; da francesi, dobbiamo rassegnarci a Hollande o Sarkozy o chi per loro perché Marine Le Pen distruggerebbe l’Europa; da italiani, dobbiamo votare sì a una insulsa riforma istituzionale perché, se Renzi perde, finiremo tutti tra le fauci dei grillini.
Strana bestia, questa democrazia. Per difenderla, in un esercizio di masochismo pragmatico, ci tocca di votare i bugiardi o gli incapaci: Hillary Clinton, che ha discorsi diversi per tutte le occasioni, le ben retribuite convention della Goldman Sachs come i comizi agli operai del Michigan; Francois Hollande, il baluardo dei valori repubblicani che si fece eleggere promettendo punizioni per i baroni della finanza e che oggi punta, più banalmente, a ridurre il potere contrattuale delle classi lavoratrici ma per il loro bene, allo scopo di aumentarne la “produttività”; Matteo Renzi, che si è inventato padre costituente senza mai essere stato eletto.
La politica, dice il saggio, è l’arte del possibile. Loro, i populisti, banalizzando la complessità, promettono al contrario soluzioni semplici: cacciare gli emigranti, costruire muri, mandare in galera i politici (gli “altri”, ovviamente, i loro sono sempre vittime di complotti), e poi la pietra filosofale d’ogni autentica politicazza economica di stampo qualunquista: ridurre le tasse con una mano e con l’altra incrementare gli investimenti pubblici e il sostegno alle famiglie in difficoltà.
Sono abbastanza vecchio e smagato da ritenermi oramai immune dagli opposti estremismi del pragmatismo fine a se stesso e del populismo piccolo borghese. Nessuno, né i pragmatisti né tantomeno i populisti, offrono soluzioni credibili per i problemi di oggi.
I primi hanno partorito il populismo, intestardendosi in modelli di politica economica che hanno impoverito i propri rispettivi paesi. I secondi sono solo degli opportunisti.
I primi perseverano nell’errore, continuando a ripetere il mantra di un’economia che si basi sul privato e non sul pubblico. I secondi cercano solo capri espiatori da esporre alla gogna.
Datemi qualcuno che dica cose sensate, non m’importa che sia onesto o corrotto fino al midollo, e lo voterò.
Per difendere la democrazia, spiega il saggio, da americani dobbiamo giocoforza votare Hillary Clinton perché Donald Trump sarebbe una sciagura; da francesi, dobbiamo rassegnarci a Hollande o Sarkozy o chi per loro perché Marine Le Pen distruggerebbe l’Europa; da italiani, dobbiamo votare sì a una insulsa riforma istituzionale perché, se Renzi perde, finiremo tutti tra le fauci dei grillini.
Strana bestia, questa democrazia. Per difenderla, in un esercizio di masochismo pragmatico, ci tocca di votare i bugiardi o gli incapaci: Hillary Clinton, che ha discorsi diversi per tutte le occasioni, le ben retribuite convention della Goldman Sachs come i comizi agli operai del Michigan; Francois Hollande, il baluardo dei valori repubblicani che si fece eleggere promettendo punizioni per i baroni della finanza e che oggi punta, più banalmente, a ridurre il potere contrattuale delle classi lavoratrici ma per il loro bene, allo scopo di aumentarne la “produttività”; Matteo Renzi, che si è inventato padre costituente senza mai essere stato eletto.
La politica, dice il saggio, è l’arte del possibile. Loro, i populisti, banalizzando la complessità, promettono al contrario soluzioni semplici: cacciare gli emigranti, costruire muri, mandare in galera i politici (gli “altri”, ovviamente, i loro sono sempre vittime di complotti), e poi la pietra filosofale d’ogni autentica politicazza economica di stampo qualunquista: ridurre le tasse con una mano e con l’altra incrementare gli investimenti pubblici e il sostegno alle famiglie in difficoltà.
Sono abbastanza vecchio e smagato da ritenermi oramai immune dagli opposti estremismi del pragmatismo fine a se stesso e del populismo piccolo borghese. Nessuno, né i pragmatisti né tantomeno i populisti, offrono soluzioni credibili per i problemi di oggi.
I primi hanno partorito il populismo, intestardendosi in modelli di politica economica che hanno impoverito i propri rispettivi paesi. I secondi sono solo degli opportunisti.
I primi perseverano nell’errore, continuando a ripetere il mantra di un’economia che si basi sul privato e non sul pubblico. I secondi cercano solo capri espiatori da esporre alla gogna.
Datemi qualcuno che dica cose sensate, non m’importa che sia onesto o corrotto fino al midollo, e lo voterò.
giovedì 1 settembre 2016
Quando i baschi scoprirono l'America
Si dice che i baschi avessero scoperto l’America già nel medioevo. Salpavano dai loro porti della penisola Iberica e veleggiavano fino alle coste degli odierni Labrador e New England, da dove riportavano a casa grandi quantità di merluzzo atlantico. Non svelarono mai dove si trovasse quella loro straordinaria riserva di pesca, che ne fece per secoli i padroni del ricco mercato europeo del pesce salato (Mark Kurlansky, Cod, 1997).
Solo mezzo secolo dopo il genovese Giovanni Caboto “riscoprì” quelle terre e vi piantò la bandiera del suo datore di lavoro, Enrico VII re d’Inghilterra, seguito a distanza di sette anni da Jacques Cartier e dal suo drapeau français.
Nessuno ricorda i nomi dei marinai baschi, o vichinghi, che sapevano dell’esistenza dell’America da molto prima che Colombo la scambiasse per l’India. La cocciutaggine di Colombo rasentava la follia: per tutta la vita negò che la terra che aveva raggiunto fosse un altro continente. Assurse comunque a gloria eterna, a dimostrazione del legame che talvolta intercorre tra fama e stupidità.
Noi mammiferi del genere umano, essendo in maggioranza animali gregari, tendiamo a seguire il capo branco, ossia chi è stimato o temuto dai più. Chi invece si sente superiore ai propri simili ed è animato da un grado sufficiente di ambizione e narcisismo, si spinge a volere emulare le gesta di quel capo branco, quando non a scalzarlo dal gradino più alto del podio.
Il contrassegno dei grandi dell’umanità è la grandezza delle loro opere. Sembra una tautologia, è forse lo è. Eppure l’anonimo navigatore basco del X secolo che attraversava l’Atlantico orientandosi con le stelle non aveva nulla in meno, per coraggio e abnegazione, di un Cristoforo Colombo. Né gli mancava l’ambizione: anch’egli voleva primeggiare, al punto da rischiare la vita per farlo, sui propri compaesani.
Né erano meno arditi del loro comandante gli stessi marinai delle caravelle, giusto meno rosi dalla smisurata ambizione e dalla furia evangelizzatrice che furono motivazioni non secondarie della sua smania di raggiungere popoli lontani.
Il coraggio di un mozzo di bordo faceva tuttavia fatica a diventare epopea. I nomi di cui i libri di storia, per secoli, hanno vantato le gesta, erano quelli dei condottieri, dei generali, dei re, talvolta dei loro consiglieri di corte (spesso aggiungendo, in quest’ultimo caso, una spruzzatina di zolfo: un cortigiano, un gran visir, un Rasputin o un cardinale Mazzarino, se capita loro di possedere più potere e ascendenza del sovrano legittimo, sono condannati allo stigma di un non so che di perverso, di devianza dal corso naturale delle cose. Dio ci salvi se poi si tratta di una donna! Di Caterina De’ Medici, per esempio, o di Wu Zetian, che da concubina qual era osò diventare imperatrice della Cina).
Per un attimo, sembrò che il Novecento avesse messo definitivamente in soffitta le chincaglierie e gli ammennicoli del diritto divino a governare il sudditame. Lo fece dopo e financo a dispetto dell’infatuazione romantica per gli eroi, i condottieri e i martiri dell’Ottocento irredentista. Va aggiunto che il pantheon mito-patriottico venne in qualche modo allargato per accogliervi, sia pure di tanto in tanto, personaggi di più modesta levatura ed estrazione sociale: la piccola vedetta lombarda o il contadino siciliano fattosi garibaldino; perfino, nell’ispirata profezia marxista, un’intera classe sociale che si faceva eroe collettivo: il proletariato.
I borghesi o gli aristocratici che si battevano per la patria (alla Nino Bixio), ebbero certo i loro quarti di notorietà, come se la sterminata genia degli eroi del passato chiedesse di avere dei discendenti con un pedigree degno dei loro.
Qualcosa, tuttavia, stava già cambiando, se perfino il rappresentante di Domineddio in terra fu costretto a mettere per iscritto che lui, il successore di Pietro, era infallibile (Pastor Aeternus, 18 luglio 1870). Se hai bisogno di scriverlo e di farlo ratificare dal concilio, vuol dire che tanto scontato più non è.
Era nato il popolo e s’era fatto sovrano, ecco cos’era successo. I partiti, libere associazioni di cittadini che partecipavano alle competizioni elettorali adesso finalmente aperte a tutti, senza restrizioni di censo e più tardi di sesso, divennero i protagonisti della vita politica e sociale.
Dove le istituzioni avevano una maggiore consuetudine con la democrazia, il processo non ebbe soluzioni di continuità. In altri contesti si verificarono crisi di rigetto e il populismo alto e piccolo borghese riportò indietro le lancette della storia: alla Roma imperiale in salsa cattolica e al Sacro Romano Impero in versione pagana (con caudillos iberici di contorno). Non è cosa facile sbarazzarsi del retaggio dei millenni, men che meno del bisogno inconscio di vati e propagatori vari di sifilide ed eroiche gesta. Succede, quando le istituzioni non funzionano.
Fu una breve parentesi, poi il potere finì nelle mani dei piccoli, mediocri, spesso pingui e poco appariscenti funzionari di partito. I mozzi di bordo s’erano fatti ammiragli e i libri di storia smisero di vantare le gesta dei grandi, sostituendole con quelle dei popoli.
Perfino gli eroi cambiarono mestiere.
La lunga marcia non fu solo di Mao ma di tutti i contadini cinesi; Stachanov il minatore divenne l’eroe eponimo del proletariato sovietico; i ladri di biciclette e i terremotati di Messina presero il posto che, sul grande schermo, era stato di Scipione l’Africano; l’uomo che davvero uccise Liberty Valance, vivaddio, fu il semi-analfabeta John Wayne, non l’avvocato diventato membro del Congresso interpretato da James Stewart; lontani da occhi indiscreti, i samurai di Rashomon mettevano da parte l’eroismo e combattevano come avrebbe fatto chiunque tra noi: da ammazzasette e facendosela sotto dalla paura.
I partiti di massa aborrivano il culto della personalità. Guai a sentirsi superiori, a ritenersi indispensabili. Il bene del partito, l’interesse generale, faceva aggio su qualunque idiosincrasia, su qualsivoglia mal di pancia.
La perfezione non è di questo mondo (e forse neppure di quell’altro, a giudicare da quante volte perfino i più onniscienti tra gli dei, esasperati, si siano risolti ad allagare il creato pur di ripartire da zero). Come sempre, i difetti erano più dei pregi, ma è il destino di noi creature imperfette.
Quel che è certo è che gli statisti di cui oggi a quanto pare sentiamo la mancanza; quei leader che nostalgicamente confrontiamo con i nostri attuali rappresentanti; i Churchill, i De Gaulle, i Togliatti, perfino i De Gasperi (ah se ci fossero loro al posto di David Cameron, di Hollande, di Renzi!); per quanto forse sì, forse dentro di loro pensassero d’essere superiori, di essere meglio degli altri (un leader modesto è una contraddizione in termini), e per quanto forse proverebbero un umano, comprensibile piacere di fronte a tale postuma adulazione; tutto ciò premesso e fatta la tara delle umane debolezze, dubito si riconoscerebbero nel ritratto che viene fatto di loro.
La grandezza delle loro gesta, come lo sbarco in quell’America che Colombo negò d’avere scoperta, non fu affatto merito loro. Churchill s’oppose fino all’ultimo all’inevitabile, e mentre l’impero britannico si dissolveva davanti ai suoi propri occhi andava ancora cianciando di non voler essere il primo ministro che sovrintendeva alla fine del dominio britannico sul mondo; De Gaulle, ospitato a Londra negli anni dell’occupazione nazista della Francia, ancora brigava contro la tradizionale nemica, la Gran Bretagna, in nome della grandeur e per mantenere il controllo della Siria, con Churchill nella stanza accanto che di tanto in tanto, per ripicca, minacciava di tagliargli i viveri; Togliatti camminava sul filo di Yalta, conciliando mefistofelicamente le purghe staliniane degli intellettuali sovietici e i buoni rapporti con l’intellighenzia italiana; De Gasperi fingeva di non sapere nulla del massacro dei sindacalisti siciliani, e dei metodi poco ortodossi e ancor meno democratici grazie ai quali la mia Sicilia si addormentò comunista e si risvegliò democristiana.
La grandezza delle loro gesta dipese dall’avere tenuto le proprie posizioni a dispetto di tutto, senza farsi traviare dall’idea medioevale che siano i leader a cambiare i paesi. I grandi del passato sono uomini come noi che, per arrivismo, ambizione e abilità nel conservare la poltrona, si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Ciò che della loro epoca rimpiangiamo accadde indipendentemente dalla loro volontà.
Quando Napoleone conquistò mezza Europa, portava con sé la spada e, come libro, il codice civile francese. Bonaparte rappresentava il futuro, era il grande riformatore del manzoniano Cinque Maggio. Arrivò fino alle porte di Mosca, dove giovani, adrenalinici generali russi studiavano piani di battaglia per contrastarlo. Mentre loro spostavano e rispostavano armate sulle mappe come giocatori di Risiko, il capo dell’esercito zarista, il generale Kutuzov, vinto dalla vecchiaia e dalla disfunzione epatica, placidamente si addormentava.
Era troppo vecchio ed esperto per credere davvero che la strategia militare avesse un senso. Sapeva che i francesi sarebbero stati sconfitti dal terribile inverno russo, e che tutto il resto era solo fumo negli occhi. Tolstoj, che a differenza di altri scrittori la guerra la combatté sul serio, di questo straordinario temporeggiatore ha dipinto un meraviglioso ritratto.
Perché, questo è il punto, nessuno controlla davvero il mondo. Né Napoleone, né Obama, né la CIA, né Putin, né il gruppo Bilderberg, né tanto meno i rettiliani. Ognuno, semplicemente, difende il suo. Fino a quando, misteriosamente e spesso dopo immani tragedie, si raggiunge un accettabile equilibrio.
Questa è la storia dell’umanità. Drammatica, terribile, meravigliosa. Tutti e nessuno siamo i depositari della verità: i marinai baschi, Cristoforo Colombo e i suoi mozzi di bordo, Napoleone, il generale Kutuzov e perfino il sottoscritto, e ovviamente voi che siete riusciti a leggermi fin qui. Sbraniamoci a vicenda, se serve, ma non lasciamo che siano i capi branco, gli individui alfa, gli assai presunti uomini forti, gli onesti a prescindere, gli unti dal signore o i senza peccato a fare finta di scrivere la storia.
Solo mezzo secolo dopo il genovese Giovanni Caboto “riscoprì” quelle terre e vi piantò la bandiera del suo datore di lavoro, Enrico VII re d’Inghilterra, seguito a distanza di sette anni da Jacques Cartier e dal suo drapeau français.
Nessuno ricorda i nomi dei marinai baschi, o vichinghi, che sapevano dell’esistenza dell’America da molto prima che Colombo la scambiasse per l’India. La cocciutaggine di Colombo rasentava la follia: per tutta la vita negò che la terra che aveva raggiunto fosse un altro continente. Assurse comunque a gloria eterna, a dimostrazione del legame che talvolta intercorre tra fama e stupidità.
Noi mammiferi del genere umano, essendo in maggioranza animali gregari, tendiamo a seguire il capo branco, ossia chi è stimato o temuto dai più. Chi invece si sente superiore ai propri simili ed è animato da un grado sufficiente di ambizione e narcisismo, si spinge a volere emulare le gesta di quel capo branco, quando non a scalzarlo dal gradino più alto del podio.
Il contrassegno dei grandi dell’umanità è la grandezza delle loro opere. Sembra una tautologia, è forse lo è. Eppure l’anonimo navigatore basco del X secolo che attraversava l’Atlantico orientandosi con le stelle non aveva nulla in meno, per coraggio e abnegazione, di un Cristoforo Colombo. Né gli mancava l’ambizione: anch’egli voleva primeggiare, al punto da rischiare la vita per farlo, sui propri compaesani.
Né erano meno arditi del loro comandante gli stessi marinai delle caravelle, giusto meno rosi dalla smisurata ambizione e dalla furia evangelizzatrice che furono motivazioni non secondarie della sua smania di raggiungere popoli lontani.
Il coraggio di un mozzo di bordo faceva tuttavia fatica a diventare epopea. I nomi di cui i libri di storia, per secoli, hanno vantato le gesta, erano quelli dei condottieri, dei generali, dei re, talvolta dei loro consiglieri di corte (spesso aggiungendo, in quest’ultimo caso, una spruzzatina di zolfo: un cortigiano, un gran visir, un Rasputin o un cardinale Mazzarino, se capita loro di possedere più potere e ascendenza del sovrano legittimo, sono condannati allo stigma di un non so che di perverso, di devianza dal corso naturale delle cose. Dio ci salvi se poi si tratta di una donna! Di Caterina De’ Medici, per esempio, o di Wu Zetian, che da concubina qual era osò diventare imperatrice della Cina).
Per un attimo, sembrò che il Novecento avesse messo definitivamente in soffitta le chincaglierie e gli ammennicoli del diritto divino a governare il sudditame. Lo fece dopo e financo a dispetto dell’infatuazione romantica per gli eroi, i condottieri e i martiri dell’Ottocento irredentista. Va aggiunto che il pantheon mito-patriottico venne in qualche modo allargato per accogliervi, sia pure di tanto in tanto, personaggi di più modesta levatura ed estrazione sociale: la piccola vedetta lombarda o il contadino siciliano fattosi garibaldino; perfino, nell’ispirata profezia marxista, un’intera classe sociale che si faceva eroe collettivo: il proletariato.
I borghesi o gli aristocratici che si battevano per la patria (alla Nino Bixio), ebbero certo i loro quarti di notorietà, come se la sterminata genia degli eroi del passato chiedesse di avere dei discendenti con un pedigree degno dei loro.
Qualcosa, tuttavia, stava già cambiando, se perfino il rappresentante di Domineddio in terra fu costretto a mettere per iscritto che lui, il successore di Pietro, era infallibile (Pastor Aeternus, 18 luglio 1870). Se hai bisogno di scriverlo e di farlo ratificare dal concilio, vuol dire che tanto scontato più non è.
Era nato il popolo e s’era fatto sovrano, ecco cos’era successo. I partiti, libere associazioni di cittadini che partecipavano alle competizioni elettorali adesso finalmente aperte a tutti, senza restrizioni di censo e più tardi di sesso, divennero i protagonisti della vita politica e sociale.
Dove le istituzioni avevano una maggiore consuetudine con la democrazia, il processo non ebbe soluzioni di continuità. In altri contesti si verificarono crisi di rigetto e il populismo alto e piccolo borghese riportò indietro le lancette della storia: alla Roma imperiale in salsa cattolica e al Sacro Romano Impero in versione pagana (con caudillos iberici di contorno). Non è cosa facile sbarazzarsi del retaggio dei millenni, men che meno del bisogno inconscio di vati e propagatori vari di sifilide ed eroiche gesta. Succede, quando le istituzioni non funzionano.
Fu una breve parentesi, poi il potere finì nelle mani dei piccoli, mediocri, spesso pingui e poco appariscenti funzionari di partito. I mozzi di bordo s’erano fatti ammiragli e i libri di storia smisero di vantare le gesta dei grandi, sostituendole con quelle dei popoli.
Perfino gli eroi cambiarono mestiere.
La lunga marcia non fu solo di Mao ma di tutti i contadini cinesi; Stachanov il minatore divenne l’eroe eponimo del proletariato sovietico; i ladri di biciclette e i terremotati di Messina presero il posto che, sul grande schermo, era stato di Scipione l’Africano; l’uomo che davvero uccise Liberty Valance, vivaddio, fu il semi-analfabeta John Wayne, non l’avvocato diventato membro del Congresso interpretato da James Stewart; lontani da occhi indiscreti, i samurai di Rashomon mettevano da parte l’eroismo e combattevano come avrebbe fatto chiunque tra noi: da ammazzasette e facendosela sotto dalla paura.
I partiti di massa aborrivano il culto della personalità. Guai a sentirsi superiori, a ritenersi indispensabili. Il bene del partito, l’interesse generale, faceva aggio su qualunque idiosincrasia, su qualsivoglia mal di pancia.
La perfezione non è di questo mondo (e forse neppure di quell’altro, a giudicare da quante volte perfino i più onniscienti tra gli dei, esasperati, si siano risolti ad allagare il creato pur di ripartire da zero). Come sempre, i difetti erano più dei pregi, ma è il destino di noi creature imperfette.
Quel che è certo è che gli statisti di cui oggi a quanto pare sentiamo la mancanza; quei leader che nostalgicamente confrontiamo con i nostri attuali rappresentanti; i Churchill, i De Gaulle, i Togliatti, perfino i De Gasperi (ah se ci fossero loro al posto di David Cameron, di Hollande, di Renzi!); per quanto forse sì, forse dentro di loro pensassero d’essere superiori, di essere meglio degli altri (un leader modesto è una contraddizione in termini), e per quanto forse proverebbero un umano, comprensibile piacere di fronte a tale postuma adulazione; tutto ciò premesso e fatta la tara delle umane debolezze, dubito si riconoscerebbero nel ritratto che viene fatto di loro.
La grandezza delle loro gesta, come lo sbarco in quell’America che Colombo negò d’avere scoperta, non fu affatto merito loro. Churchill s’oppose fino all’ultimo all’inevitabile, e mentre l’impero britannico si dissolveva davanti ai suoi propri occhi andava ancora cianciando di non voler essere il primo ministro che sovrintendeva alla fine del dominio britannico sul mondo; De Gaulle, ospitato a Londra negli anni dell’occupazione nazista della Francia, ancora brigava contro la tradizionale nemica, la Gran Bretagna, in nome della grandeur e per mantenere il controllo della Siria, con Churchill nella stanza accanto che di tanto in tanto, per ripicca, minacciava di tagliargli i viveri; Togliatti camminava sul filo di Yalta, conciliando mefistofelicamente le purghe staliniane degli intellettuali sovietici e i buoni rapporti con l’intellighenzia italiana; De Gasperi fingeva di non sapere nulla del massacro dei sindacalisti siciliani, e dei metodi poco ortodossi e ancor meno democratici grazie ai quali la mia Sicilia si addormentò comunista e si risvegliò democristiana.
La grandezza delle loro gesta dipese dall’avere tenuto le proprie posizioni a dispetto di tutto, senza farsi traviare dall’idea medioevale che siano i leader a cambiare i paesi. I grandi del passato sono uomini come noi che, per arrivismo, ambizione e abilità nel conservare la poltrona, si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Ciò che della loro epoca rimpiangiamo accadde indipendentemente dalla loro volontà.
Quando Napoleone conquistò mezza Europa, portava con sé la spada e, come libro, il codice civile francese. Bonaparte rappresentava il futuro, era il grande riformatore del manzoniano Cinque Maggio. Arrivò fino alle porte di Mosca, dove giovani, adrenalinici generali russi studiavano piani di battaglia per contrastarlo. Mentre loro spostavano e rispostavano armate sulle mappe come giocatori di Risiko, il capo dell’esercito zarista, il generale Kutuzov, vinto dalla vecchiaia e dalla disfunzione epatica, placidamente si addormentava.
Era troppo vecchio ed esperto per credere davvero che la strategia militare avesse un senso. Sapeva che i francesi sarebbero stati sconfitti dal terribile inverno russo, e che tutto il resto era solo fumo negli occhi. Tolstoj, che a differenza di altri scrittori la guerra la combatté sul serio, di questo straordinario temporeggiatore ha dipinto un meraviglioso ritratto.
Perché, questo è il punto, nessuno controlla davvero il mondo. Né Napoleone, né Obama, né la CIA, né Putin, né il gruppo Bilderberg, né tanto meno i rettiliani. Ognuno, semplicemente, difende il suo. Fino a quando, misteriosamente e spesso dopo immani tragedie, si raggiunge un accettabile equilibrio.
Questa è la storia dell’umanità. Drammatica, terribile, meravigliosa. Tutti e nessuno siamo i depositari della verità: i marinai baschi, Cristoforo Colombo e i suoi mozzi di bordo, Napoleone, il generale Kutuzov e perfino il sottoscritto, e ovviamente voi che siete riusciti a leggermi fin qui. Sbraniamoci a vicenda, se serve, ma non lasciamo che siano i capi branco, gli individui alfa, gli assai presunti uomini forti, gli onesti a prescindere, gli unti dal signore o i senza peccato a fare finta di scrivere la storia.
giovedì 25 agosto 2016
La maledizione di Tikulti-Ninurta
“Guârdati dal rimuovere la mia stele e il mio nome: la dea Ishtar, la mia signora e padrona, distruggerà il tuo potere, spezzerà le tue armi, sterminerà la tua discendenza e ti consegnerà ai tuoi nemici”.
Non poteva essere più esplicita, la maledizione fatta incidere da Tikulti-Ninurta I, re degli Assiri, nella seconda metà del XIII secolo a.C.
Guai a riderne: le maledizioni degli antichi imperatori, e dei loro dei, vanno prese sul serio. Sempre. Nessuno conosce meglio la caducità delle umane cose di un re che ha perso il proprio regno.
Lo stesso Tikulti-Ninurta lo imparò a sue spese. Aveva osato violare, lui per primo, la santità di Babilonia. La conquistò e ne fece prigionieri il re e perfino il dio Marduk, la cui statua trasportò in catene in Assiria. Fu il suo proprio figlio a fargli pagare il fio di tanto ardire: lo detronizzò, lo gettò in carcere e diede fuoco alla nuova capitale, che Tikulti-Ninurta aveva voluto costruire di fronte a quella vecchia, Assur, sulla sponda opposta del Tigri.
Lo impararono altresì i tedeschi. La stele è a tutt’oggi esposta al Vorderasiatisches Museum, nell’isola dei musei di Berlino. A scoprirla, infatti, alla vigilia della prima guerra mondiale, fu l’archeologo tedesco Walter Andrae.
Il professor Andrae non diede retta a ciò che vi era inciso e imprudentemente la rimosse. Chissà se collegò mai i due episodi: il suo sacrilegio e l’assassinio, in quel di Sarajevo, dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando. Quel che è certo è che pochi anni e milioni di morti dopo, la nefasta profezia di Tikulti-Ninurta si sarebbe avverata: il secondo impero tedesco fu spazzato via, com’era già accaduto al primo e come accadrà anche al terzo, l’effimero “reich” hitleriano.
L’Europa intera, a dire il vero, non solo la Germania, pagò l’ardire dei propri archeologi. Per lo meno, quei paesi dell’Europa che si erano lanciati in imprese imperiali.
Quante tombe furono violate, negli anni gloriosi dell’archeologia coloniale! Mausolei di sconosciuti sovrani, di dimenticati imperatori, di mummificati faraoni, di divinità in terra che i vermi non trovarono affatto diverse dai comuni mortali, né meno digeribili.
Enormi musei furono costruiti per ospitare i resti delle antiche civiltà, con sotterranei ancora più grandi per immagazzinare ciò che non poteva essere esposto.
Che opera immane, fu quella: dissotterrare la storia, leggere nuovamente lingue rimaste mute per millenni, trasportare per terre e per mari le spoglie prigioniere di divinità che furono, un tempo, onnipotenti.
Come Tikulti-Ninurta, anche i sovrani d’Occidente scoprirono ben presto quanta scarogna porti il ratto degli dei altrui. La prima guerra mondiale fu, per i loro imperi, l’inizio della fine.
L’erede dell’imperatrice dell’India oggi fa i soldi con le royalties sulle tazze da tè e le foto di Kate & William vendute ai rotocalchi; l’erede di Carlo V e Filippo II è costretto ad abdicare per storiacce di corna e falsi in bilancio; il re del Portogallo non sa neanche ballar la samba (vedi Mario Panzeri, Il re del Portogallo, 1948); l’ultimo kaiser di cui si ha memoria risponde al nome di Franz Beckenbauer.
Gli imperi che furono vivono di rendita. Riesce loro difficile il gioco che pure un tempo funzionò: garantire i diritti e il benessere dei propri sudditi a discapito del resto del mondo. Perso quest’ultimo, stanno scoprendo il terrore e lo sgomento d’essere diventati marche di confine di altri imperi, vicini e lontani, che la ruota infinita della storia sta riportando all’antica potenza. Provano, di tanto in tanto, a lucidare le cannoniere, a flettere gli atrofizzati muscoli, ma con risultati patetici.
Sono come le repubbliche di Genova e di Venezia negli anni del loro tramonto. Furono signore dei mari, e sono ancora ricche di denari ed expertise, maestre di commercio e brokeraggio; sono ancora difese da efficienti milizie mercenarie; orgogliose sempre delle proprie tradizioni; onuste di gloria e decadenza.
I cavalli di bronzo ancora svettano sulla cattedrale di San Marco: bottino di guerra di una crociata, la quarta, partita per liberare Gerusalemme dai musulmani e vittoriosamente conclusasi col saccheggio della cristiana Bisanzio.
Di fronte a potenze molto più grandi, incapaci di comprendere l’epoca nuova, Genova e Venezia continuano a guerreggiare tra di loro, a mettere in scena la pantomima della propria secolare rivalità. A fare ciò che sono abituate a fare.
Tutto sembra com’era, eppure tutto è cambiato. Il loro regno, il Mediterraneo, non è più il centro del mondo.
Per circa cinque secoli, quel centro divenne l’Atlantico. Non a caso si chiamò NATO, la Santa Alleanza degli antichi imperi d’Occidente: North Atlantic Treaty Organization.
Oggi il centro s’è spostato nuovamente. O, per meglio dire, è scomparso: nessuno sa più bene dove stia. C’è chi lo cerca lungo le coste del Pacifico; chi sulle rive del Mar Caspio; chi lungo il corso del Potomac; a detta di qualcun altro, starebbe niente meno che sulla Sprea (ma quando mai s’è visto, un impero senza esercito?).
“Viviamo in un’epoca di transizione. Come sempre, del resto”, diceva Ennio Flaiano. Se lo poteva permettere, lui. Scriveva dall’alto d’uno scetticismo millenario, in una città che aveva perso il suo impero tanti secoli prima e all’indomani di quella parodia dell’età augustea che fu il fascismo. Se lo poteva permettere, nel mondo ordinato della guerra fredda e del welfare state.
Finché le epoche di transizione arrivano davvero. Finché arriva il momento in cui le carte si scoprono e si capisce chi stava bluffando. Il disastro delle guerre neo-coloniali in Mesopotamia, la nuova presa di Babilonia, e poi i sensi di colpa che hanno spinto i leader occidentali a sostenere le cosiddette primavere arabe (però a singhiozzo: sì la Libia no il Bahrein mezzo e mezzo la Siria): tutto questo non solo ha lasciato dietro di sé morti e macerie, ma ha anche reso più che evidente l’incapacità dei nuovi padroni del mondo di padroneggiare alcunché.
La strategia del mezzo-passo, del tirare la granata e nascondere la mano, del pretendere d’impadronirsi delle risorse naturali di paesi lontani senza però occuparli di fatto, di scimmiottare antiche pratiche coloniali senza truppe sul terreno e funzionari amministrativi e viceré e governatori… decisamente, non c’è nulla di peggio di un re che fa la voce grossa ben sapendo d’andare in giro col culo di fuori.
Le vecchie potenze europee, in un atto di lodevole contrizione, nel secondo dopoguerra vollero farsi pacifiche, coprire l’odore d’iprite e polvere da sparo che ancora ammorbava l’aria. Durò finché sopravvisse l’equilibrio delle potenze. Crollato quest’ultimo, la strategia della pace mostrò subito la sua debolezza. Perfino alle porte di casa sua, in quella che un tempo si chiamava Jugoslavia, dovettero intervenire gli americani per porre termine a una terribile guerra fratricida, mentre i caschi blu olandesi osservavano coi binocoli rovesciati i poveri cristi che avevano mandato al massacro. Affinché l’orrore sembrasse lontano, non lì, a pochi metri dalla loro guarnigione.
Incurante del ridicolo, l’Europa volle spingere i propri confini fino a inglobare le sterminate pianure ucraine, il granaio dell’antico nemico russo. Era solo questione di tempo, prima che il mafio-zar Vladimir Putin, il prode cacciatore di tigri narcotizzate, si pappasse la Crimea in un solo boccone.
Nella Grande Illusione di Jean Renoir, ambientato durante la prima guerra mondiale, il capitano francese de Boldieu viene fatto prigioniero dal parigrado tedesco Von Rauffenstein. Sono entrambi nobili, eredi di casati che nel mestiere delle armi avevano trovato, per secoli, la propria ragion d’essere.
Von Rauffenstein invita a cena il suo prigioniero, e i due amabilmente discettano, come amici di lunga data, dei loro sottoposti: di questi uomini qualunque, figli del popolo, che non possiedono il loro imprinting marziale, che non comprendono il massacro di cui pure sono parte. Che non capiscono la guerra.
Chissà cosa direbbero dell’Europa di oggi, di quest’informe agglomerato di antichi regni che le armi dei loro antenati forgiarono e fecero ricchi? Di questa prospera e decadente potenza, culla di democrazia e insieme di tirannia, che cerca a tentoni un ruolo nell’ordine geopolitico delle cose? I cui leader, discendenti di genie di condottieri e forse per questo incapaci di fare i conti con la dura realtà, si coprono di ridicolo ogni qual volta si atteggiano a napoleoni?
Perché è questo, aujourd’hui, il Vecchio Continente: le sue armi spezzate, il potere in frantumi, una discendenza che è sulla buona strada per sterminarsi da sola, visto il tasso di natalità che da decenni non pareggia il conto dei morti.
Se Tikulti-Ninurta riposa ancora nella sua tomba, starà certamente gongolando.
Non poteva essere più esplicita, la maledizione fatta incidere da Tikulti-Ninurta I, re degli Assiri, nella seconda metà del XIII secolo a.C.
Guai a riderne: le maledizioni degli antichi imperatori, e dei loro dei, vanno prese sul serio. Sempre. Nessuno conosce meglio la caducità delle umane cose di un re che ha perso il proprio regno.
Lo stesso Tikulti-Ninurta lo imparò a sue spese. Aveva osato violare, lui per primo, la santità di Babilonia. La conquistò e ne fece prigionieri il re e perfino il dio Marduk, la cui statua trasportò in catene in Assiria. Fu il suo proprio figlio a fargli pagare il fio di tanto ardire: lo detronizzò, lo gettò in carcere e diede fuoco alla nuova capitale, che Tikulti-Ninurta aveva voluto costruire di fronte a quella vecchia, Assur, sulla sponda opposta del Tigri.
Lo impararono altresì i tedeschi. La stele è a tutt’oggi esposta al Vorderasiatisches Museum, nell’isola dei musei di Berlino. A scoprirla, infatti, alla vigilia della prima guerra mondiale, fu l’archeologo tedesco Walter Andrae.
Il professor Andrae non diede retta a ciò che vi era inciso e imprudentemente la rimosse. Chissà se collegò mai i due episodi: il suo sacrilegio e l’assassinio, in quel di Sarajevo, dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando. Quel che è certo è che pochi anni e milioni di morti dopo, la nefasta profezia di Tikulti-Ninurta si sarebbe avverata: il secondo impero tedesco fu spazzato via, com’era già accaduto al primo e come accadrà anche al terzo, l’effimero “reich” hitleriano.
L’Europa intera, a dire il vero, non solo la Germania, pagò l’ardire dei propri archeologi. Per lo meno, quei paesi dell’Europa che si erano lanciati in imprese imperiali.
Quante tombe furono violate, negli anni gloriosi dell’archeologia coloniale! Mausolei di sconosciuti sovrani, di dimenticati imperatori, di mummificati faraoni, di divinità in terra che i vermi non trovarono affatto diverse dai comuni mortali, né meno digeribili.
Enormi musei furono costruiti per ospitare i resti delle antiche civiltà, con sotterranei ancora più grandi per immagazzinare ciò che non poteva essere esposto.
Che opera immane, fu quella: dissotterrare la storia, leggere nuovamente lingue rimaste mute per millenni, trasportare per terre e per mari le spoglie prigioniere di divinità che furono, un tempo, onnipotenti.
Come Tikulti-Ninurta, anche i sovrani d’Occidente scoprirono ben presto quanta scarogna porti il ratto degli dei altrui. La prima guerra mondiale fu, per i loro imperi, l’inizio della fine.
L’erede dell’imperatrice dell’India oggi fa i soldi con le royalties sulle tazze da tè e le foto di Kate & William vendute ai rotocalchi; l’erede di Carlo V e Filippo II è costretto ad abdicare per storiacce di corna e falsi in bilancio; il re del Portogallo non sa neanche ballar la samba (vedi Mario Panzeri, Il re del Portogallo, 1948); l’ultimo kaiser di cui si ha memoria risponde al nome di Franz Beckenbauer.
Gli imperi che furono vivono di rendita. Riesce loro difficile il gioco che pure un tempo funzionò: garantire i diritti e il benessere dei propri sudditi a discapito del resto del mondo. Perso quest’ultimo, stanno scoprendo il terrore e lo sgomento d’essere diventati marche di confine di altri imperi, vicini e lontani, che la ruota infinita della storia sta riportando all’antica potenza. Provano, di tanto in tanto, a lucidare le cannoniere, a flettere gli atrofizzati muscoli, ma con risultati patetici.
Sono come le repubbliche di Genova e di Venezia negli anni del loro tramonto. Furono signore dei mari, e sono ancora ricche di denari ed expertise, maestre di commercio e brokeraggio; sono ancora difese da efficienti milizie mercenarie; orgogliose sempre delle proprie tradizioni; onuste di gloria e decadenza.
I cavalli di bronzo ancora svettano sulla cattedrale di San Marco: bottino di guerra di una crociata, la quarta, partita per liberare Gerusalemme dai musulmani e vittoriosamente conclusasi col saccheggio della cristiana Bisanzio.
Di fronte a potenze molto più grandi, incapaci di comprendere l’epoca nuova, Genova e Venezia continuano a guerreggiare tra di loro, a mettere in scena la pantomima della propria secolare rivalità. A fare ciò che sono abituate a fare.
Tutto sembra com’era, eppure tutto è cambiato. Il loro regno, il Mediterraneo, non è più il centro del mondo.
Per circa cinque secoli, quel centro divenne l’Atlantico. Non a caso si chiamò NATO, la Santa Alleanza degli antichi imperi d’Occidente: North Atlantic Treaty Organization.
Oggi il centro s’è spostato nuovamente. O, per meglio dire, è scomparso: nessuno sa più bene dove stia. C’è chi lo cerca lungo le coste del Pacifico; chi sulle rive del Mar Caspio; chi lungo il corso del Potomac; a detta di qualcun altro, starebbe niente meno che sulla Sprea (ma quando mai s’è visto, un impero senza esercito?).
“Viviamo in un’epoca di transizione. Come sempre, del resto”, diceva Ennio Flaiano. Se lo poteva permettere, lui. Scriveva dall’alto d’uno scetticismo millenario, in una città che aveva perso il suo impero tanti secoli prima e all’indomani di quella parodia dell’età augustea che fu il fascismo. Se lo poteva permettere, nel mondo ordinato della guerra fredda e del welfare state.
Finché le epoche di transizione arrivano davvero. Finché arriva il momento in cui le carte si scoprono e si capisce chi stava bluffando. Il disastro delle guerre neo-coloniali in Mesopotamia, la nuova presa di Babilonia, e poi i sensi di colpa che hanno spinto i leader occidentali a sostenere le cosiddette primavere arabe (però a singhiozzo: sì la Libia no il Bahrein mezzo e mezzo la Siria): tutto questo non solo ha lasciato dietro di sé morti e macerie, ma ha anche reso più che evidente l’incapacità dei nuovi padroni del mondo di padroneggiare alcunché.
La strategia del mezzo-passo, del tirare la granata e nascondere la mano, del pretendere d’impadronirsi delle risorse naturali di paesi lontani senza però occuparli di fatto, di scimmiottare antiche pratiche coloniali senza truppe sul terreno e funzionari amministrativi e viceré e governatori… decisamente, non c’è nulla di peggio di un re che fa la voce grossa ben sapendo d’andare in giro col culo di fuori.
Le vecchie potenze europee, in un atto di lodevole contrizione, nel secondo dopoguerra vollero farsi pacifiche, coprire l’odore d’iprite e polvere da sparo che ancora ammorbava l’aria. Durò finché sopravvisse l’equilibrio delle potenze. Crollato quest’ultimo, la strategia della pace mostrò subito la sua debolezza. Perfino alle porte di casa sua, in quella che un tempo si chiamava Jugoslavia, dovettero intervenire gli americani per porre termine a una terribile guerra fratricida, mentre i caschi blu olandesi osservavano coi binocoli rovesciati i poveri cristi che avevano mandato al massacro. Affinché l’orrore sembrasse lontano, non lì, a pochi metri dalla loro guarnigione.
Incurante del ridicolo, l’Europa volle spingere i propri confini fino a inglobare le sterminate pianure ucraine, il granaio dell’antico nemico russo. Era solo questione di tempo, prima che il mafio-zar Vladimir Putin, il prode cacciatore di tigri narcotizzate, si pappasse la Crimea in un solo boccone.
Nella Grande Illusione di Jean Renoir, ambientato durante la prima guerra mondiale, il capitano francese de Boldieu viene fatto prigioniero dal parigrado tedesco Von Rauffenstein. Sono entrambi nobili, eredi di casati che nel mestiere delle armi avevano trovato, per secoli, la propria ragion d’essere.
Von Rauffenstein invita a cena il suo prigioniero, e i due amabilmente discettano, come amici di lunga data, dei loro sottoposti: di questi uomini qualunque, figli del popolo, che non possiedono il loro imprinting marziale, che non comprendono il massacro di cui pure sono parte. Che non capiscono la guerra.
Chissà cosa direbbero dell’Europa di oggi, di quest’informe agglomerato di antichi regni che le armi dei loro antenati forgiarono e fecero ricchi? Di questa prospera e decadente potenza, culla di democrazia e insieme di tirannia, che cerca a tentoni un ruolo nell’ordine geopolitico delle cose? I cui leader, discendenti di genie di condottieri e forse per questo incapaci di fare i conti con la dura realtà, si coprono di ridicolo ogni qual volta si atteggiano a napoleoni?
Perché è questo, aujourd’hui, il Vecchio Continente: le sue armi spezzate, il potere in frantumi, una discendenza che è sulla buona strada per sterminarsi da sola, visto il tasso di natalità che da decenni non pareggia il conto dei morti.
Se Tikulti-Ninurta riposa ancora nella sua tomba, starà certamente gongolando.
martedì 2 agosto 2016
Europalgia
Quando il termine nostalgia fu usato per la prima volta, nel 1688, non aveva nulla a che vedere con i dolci ricordi d’infanzia o con le romantiche foto color seppia del paesello che fu.
Oggi, per noi, la nostalgia è un sentimento. Dolciastro, piacevole, e se talvolta capita che sia doloroso, è un dolore nel quale amiamo crogiolarci. Tutti proviamo “nostalgia” per gli anni che furono, e ci ritroviamo in compagnia degli amici d’infanzia o dei vecchi compagni di scuola a raccontare per l’ennesima volta, tra il divertito e il commosso, di quando cascammo dall’albero o di come riuscimmo a farla franca col professore di matematica.
Un mutamento di significato che la nostalgia ha in comune con un altro termine, a sua volta talmente irriconoscibile da esserne diventato quasi un sinonimo: malinconia.
Nell’odierno linguaggio quotidiano la malinconia è nostalgia con un sovrappiù di tristezza, meno legata a memorie particolari. E’ nostalgia di non si sa bene cosa.
Eppure, in origine, la malinconia (anzi, melanconia) era né più né meno che un sinonimo di ciò che oggi chiamiamo depressione. Il malinconico era un depresso, non un nostalgico. E il nostalgico, a sua volta, era un malato.
Johannes Hofer, lo studente di medicina svizzero che nel XVII secolo coniò il termine nostalgia, la definì “una malattia di origine demoniaca”. Non a caso il suo secondo elemento etimologico, -algìa, deriva dal greco “algos”, dolore. Come in nevralgia o in lombosciatalgia.
Il primo elemento è nóstos, ritorno. La nostalgia, letteralmente e storicamente intesa, è il dolore del ritorno. Colpiva i mercenari svizzeri che combattevano in giro per l’Europa e rimanevano per anni lontani da casa. Alcuni provavano un dolore così insopportabile da spingerli alla depressione e al suicidio.
La nostalgia è la malattia dell’Europa di oggi. La memoria individuale e la memoria storica non sono sovrapponibili. Non coincidono. Ciò che in realtà dolorosamente rimpiangiamo, ciò che disperatamente vorremmo indietro, è la stabilità del passato, la sicurezza che deriva dal suo essere per l'appunto passato.
Noi europei, oggi, siamo come quegli adolescenti che vorrebbero tornare bambini, e che hanno dimenticato di quando, bambini, volevano crescere in fretta, lasciarsi alle spalle le ansie dell’infanzia e diventare adulti. Siamo come quegli adulti che vorrebbero tornare adolescenti, e che dalla propria adolescenza hanno rimosso le terribili insicurezze, l’instabilità emotiva, il terrore di non essere all’altezza.
Il passato che rimpiangiamo non è quasi mai il nostro vero passato. E’ un passato edulcorato, corretto, riscritto. Vorremmo indietro il bambino senza l’acqua sporca: lo stato sociale di un tempo senza le guerre mondiali che ne furono l’origine; le fabbriche di una volta senza la schiavitù della catena di montaggio; il posto al municipio senza la leccata al ministro di turno; i polacchi a casa loro senza il confine russo sulle rive della Sprea; Enzo Bearzot e Paolo Rossi senza Nitto Santapaola e la bomba alla stazione di Bologna.
La nostalgia è la malattia di Ulisse. L’Ulisse di Omero non è quello di Dante. Non vuole esplorare il mondo, allargare le sue conoscenze. Lo fa solo incidentalmente, e solo perché costretto dal fato e dagli dei che congiurano contro di lui e lo spingono ogni volta su una rotta che lui non ha scelto. Ciò che desidera è tornare alla sua Itaca.
Ma sarà davvero tutta colpa del fato? Ha davvero dimenticato, Ulisse, l’inquietudine che a suo tempo lo spinse a imbarcarsi e ad andare a combattere sotto le mura di Troia? E’ anche Ulisse della razza di chi anela tornare a casa perché si è dimenticato di quando il suo più grande desiderio era fuggirne via?
E noi europei, eravamo davvero così felici, quando eravamo felici? Perché mai, allora, la maggioranza di noi accolse con entusiasmo l’unione europea e il crollo del muro di Berlino? Il fatto è che io ricordo (un inganno della memoria?) di quanto felici fummo all’epoca.
Di “vittorie mutilate” è piena la storia dell’umanità e il futuro non mantiene mai le promesse che aveva fatto in passato. Eppure, per quanto possiamo odiare il futuro nel momento in cui diventa presente, dobbiamo avere per lui il massimo riguardo. E’ il tempo che bene o male saremo costretti a vivere.
La nostalgia per un’Europa Felix che non è mai esistita è invece, come avrebbe scritto Johannes Hofer, una “malattia di origine demoniaca”.
Chiamatela, se volete, europalgia.
Oggi, per noi, la nostalgia è un sentimento. Dolciastro, piacevole, e se talvolta capita che sia doloroso, è un dolore nel quale amiamo crogiolarci. Tutti proviamo “nostalgia” per gli anni che furono, e ci ritroviamo in compagnia degli amici d’infanzia o dei vecchi compagni di scuola a raccontare per l’ennesima volta, tra il divertito e il commosso, di quando cascammo dall’albero o di come riuscimmo a farla franca col professore di matematica.
Un mutamento di significato che la nostalgia ha in comune con un altro termine, a sua volta talmente irriconoscibile da esserne diventato quasi un sinonimo: malinconia.
Nell’odierno linguaggio quotidiano la malinconia è nostalgia con un sovrappiù di tristezza, meno legata a memorie particolari. E’ nostalgia di non si sa bene cosa.
Eppure, in origine, la malinconia (anzi, melanconia) era né più né meno che un sinonimo di ciò che oggi chiamiamo depressione. Il malinconico era un depresso, non un nostalgico. E il nostalgico, a sua volta, era un malato.
Johannes Hofer, lo studente di medicina svizzero che nel XVII secolo coniò il termine nostalgia, la definì “una malattia di origine demoniaca”. Non a caso il suo secondo elemento etimologico, -algìa, deriva dal greco “algos”, dolore. Come in nevralgia o in lombosciatalgia.
Il primo elemento è nóstos, ritorno. La nostalgia, letteralmente e storicamente intesa, è il dolore del ritorno. Colpiva i mercenari svizzeri che combattevano in giro per l’Europa e rimanevano per anni lontani da casa. Alcuni provavano un dolore così insopportabile da spingerli alla depressione e al suicidio.
La nostalgia è la malattia dell’Europa di oggi. La memoria individuale e la memoria storica non sono sovrapponibili. Non coincidono. Ciò che in realtà dolorosamente rimpiangiamo, ciò che disperatamente vorremmo indietro, è la stabilità del passato, la sicurezza che deriva dal suo essere per l'appunto passato.
Noi europei, oggi, siamo come quegli adolescenti che vorrebbero tornare bambini, e che hanno dimenticato di quando, bambini, volevano crescere in fretta, lasciarsi alle spalle le ansie dell’infanzia e diventare adulti. Siamo come quegli adulti che vorrebbero tornare adolescenti, e che dalla propria adolescenza hanno rimosso le terribili insicurezze, l’instabilità emotiva, il terrore di non essere all’altezza.
Il passato che rimpiangiamo non è quasi mai il nostro vero passato. E’ un passato edulcorato, corretto, riscritto. Vorremmo indietro il bambino senza l’acqua sporca: lo stato sociale di un tempo senza le guerre mondiali che ne furono l’origine; le fabbriche di una volta senza la schiavitù della catena di montaggio; il posto al municipio senza la leccata al ministro di turno; i polacchi a casa loro senza il confine russo sulle rive della Sprea; Enzo Bearzot e Paolo Rossi senza Nitto Santapaola e la bomba alla stazione di Bologna.
La nostalgia è la malattia di Ulisse. L’Ulisse di Omero non è quello di Dante. Non vuole esplorare il mondo, allargare le sue conoscenze. Lo fa solo incidentalmente, e solo perché costretto dal fato e dagli dei che congiurano contro di lui e lo spingono ogni volta su una rotta che lui non ha scelto. Ciò che desidera è tornare alla sua Itaca.
Ma sarà davvero tutta colpa del fato? Ha davvero dimenticato, Ulisse, l’inquietudine che a suo tempo lo spinse a imbarcarsi e ad andare a combattere sotto le mura di Troia? E’ anche Ulisse della razza di chi anela tornare a casa perché si è dimenticato di quando il suo più grande desiderio era fuggirne via?
E noi europei, eravamo davvero così felici, quando eravamo felici? Perché mai, allora, la maggioranza di noi accolse con entusiasmo l’unione europea e il crollo del muro di Berlino? Il fatto è che io ricordo (un inganno della memoria?) di quanto felici fummo all’epoca.
Di “vittorie mutilate” è piena la storia dell’umanità e il futuro non mantiene mai le promesse che aveva fatto in passato. Eppure, per quanto possiamo odiare il futuro nel momento in cui diventa presente, dobbiamo avere per lui il massimo riguardo. E’ il tempo che bene o male saremo costretti a vivere.
La nostalgia per un’Europa Felix che non è mai esistita è invece, come avrebbe scritto Johannes Hofer, una “malattia di origine demoniaca”.
Chiamatela, se volete, europalgia.
sabato 7 maggio 2016
C'era una volta il pianeta Terra. Maggio 2016. Prima settimana
Yukako Fukushima è una chirurga estetica di Osaka. Lavora presso la clinica Kawamura Gishi, nel pieno centro della seconda città giapponese per numero d’abitanti.
E’ specializzata nella fabbricazione e nell’impianto di dita artificiali. Combinando venti diversi colori, è in grado di ottenere oltre mille tonalità di rosa. Il risultato è che le protesi sono assolutamente identiche alle dita originali.
I suoi clienti sono soprattutto ex-membri della yakuza, la potentissima mafia nipponica. Il taglio della prima falange del mignolo, in giapponese, si chiama yubitsume (letteralmente, accorciamento del dito). E’ una punizione rituale che i trasgressori alle regole dell’organizzazione devono auto-infliggersi.
La dottoressa Fukushima lavora in collaborazione con la polizia. Le sue protesi servono ai membri della yakuza che vogliono rifarsi una vita e, per riuscirci, devono nascondere quel vecchio, riconoscibilissimo marchio d’appartenenza.
Negli ultimi anni è stata oberata di lavoro. Il suo successo professionale è un segno della fase di decadenza che la mafia giapponese sta attraversando. Aveva 80 mila membri nel 2009, ridottisi oggi a 53 mila.
*****
Secondo uno studio dell’Ufficio delle statistiche sul lavoro statunitense (Bureau of Labor Statistics), gli utenti americani di Facebook trascorrono mediamente cinquanta minuti al giorno sui social media. Solo la Tv batte Facebook (2,8 ore al giorno). La lettura si ferma a 19 minuti, Youtube a 17 (Twitter a un solo, miserabile minuto). Ciò spiega il successo economico della società di Mark Zuckerberg. Più tempo un utente passa su Facebook, più il gestore è in grado di tracciarne le preferenze e di personalizzare le inserzioni sulla sua pagina. Una manna per i pubblicitari, che infatti stanno dirottando i loro investimenti dalla stampa e dalla TV tradizionali (troppo generaliste) in direzione di Facebook.
Il trend è in crescita. Cinquanta minuti al giorno significa che, nel corso di un mese, un utente americano medio trascorre un giorno intero a “scrollare” Facebook. Dodici giorni all’anno. Che diventano tuttavia molti di più nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni. Senza ovviamente contare che al totale delle 24 ore giornaliere andrebbero sottratte quelle dedicate al sonno e al lavoro. Fatelo, e l’incidenza di Facebook sul nostro tempo libero finirà con l’assumere dimensioni inquietanti.
*****
Gli elettori di Donald Trump sono in prevalenza maschi, bianchi, diplomati e con un reddito inferiore ai 50 mila dollari all’anno. Curiosamente ma non troppo, la stessa fascia di reddito dei sostenitori di Bernie Sanders, il rivale di sinistra di Hillary Clinton.
Trattasi di gruppi sociali che un tempo sarebbero stati definiti “classe media” (o classe lavoratrice, nella versione americana. I veri poveri, negli Stati uniti, dove occorre registrarsi alle liste elettorali per votare, fanno parte della fascia di reddito in questione ma sono di fatto esclusi dal computo dell’elettorato attivo).
Il sistema elettorale americano è stato modellato sulla classe media, e lo stesso vale per le strategie politico-elettorali dei Repubblicani e dei Democratici (definiti, un tempo, partiti pigliatutto). Quello che sta accadendo negli Stati uniti è solo l’antipasto di una crisi della classe media, devastata dalle disuguaglianze sociali, che sta manifestandosi in tutta la sua gravità nella quasi totalità dei paesi occidentali.
L’élite del partito democratico, rappresentata da Hillary Clinton, sopravvive ancora grazie all’apporto delle minoranze etniche; quella del partito repubblicano è stata letteralmente spazzata via dal ciclone Donald Trump.
Il mondo non sarà mai più come era.
*****
La cosa più divertente di un’eventuale vittoria di Donald Trump è che toccherebbe proprio a lui, al candidato che ha basato gran parte del suo successo sull’ostilità nei confronti degli immigrati, sul voler costruire muri e su tutto il resto della paccottiglia populista, ad aprire le porte della Casa bianca alla prima first lady non americana.
Sua moglie si chiama Melania Knauss, all’anagrafe Knavs (cambiò il suo cognome quando divenne una top-model). E’ nata a Novo Mesto nel 1970, all'epoca in cui la Slovenia era ancora soltanto una regione della ex-Jugoslavia.
E’ cittadina americana dal 2001, dopo il matrimonio con Trump. La cui prima moglie, tra perentesi, era un’altra modella nata nell’ex Cecoslovacchia.
L’amore non conosce limiti né, a quanto pare, frontiere.
*****
Il Lussemburgo è un piccolo paese di poco più di 500 mila abitanti, incastonato tra la Francia, il Belgio e la Germania. E’ un noto paradiso fiscale, circostanza che misteriosamente non gli impedisce di esprimere un presidente della Commissione europea che per giunta si permette, senza il minimo senso del ridicolo, di dare lezioni di responsabilità fiscale agli altri paesi dell’Unione.
Eppure, nel giro di cinque anni, questo microscopico staterello potrebbe diventare una delle potenze minerarie più importanti del mondo.
A quanto pare, il Gran Ducato ha un ente spaziale che ha appena sottoscritto due accordi con altrettante società aerospaziali: la californiana Deep Space Industries e la Planetary Resources (che annovera tra i soci Larry Page e Eric Schmidt di Google e il fondatore della Virgin, Richard Branson).
L'obiettivo è quello di lanciare entro il 2020 la prima missione mineraria nello spazio profondo, allo scopo di prelevare minerari rari e preziosi da asteroidi e quant’altro per mezzo di navicelle spaziali prive d’equipaggio.
E’ specializzata nella fabbricazione e nell’impianto di dita artificiali. Combinando venti diversi colori, è in grado di ottenere oltre mille tonalità di rosa. Il risultato è che le protesi sono assolutamente identiche alle dita originali.
I suoi clienti sono soprattutto ex-membri della yakuza, la potentissima mafia nipponica. Il taglio della prima falange del mignolo, in giapponese, si chiama yubitsume (letteralmente, accorciamento del dito). E’ una punizione rituale che i trasgressori alle regole dell’organizzazione devono auto-infliggersi.
La dottoressa Fukushima lavora in collaborazione con la polizia. Le sue protesi servono ai membri della yakuza che vogliono rifarsi una vita e, per riuscirci, devono nascondere quel vecchio, riconoscibilissimo marchio d’appartenenza.
Negli ultimi anni è stata oberata di lavoro. Il suo successo professionale è un segno della fase di decadenza che la mafia giapponese sta attraversando. Aveva 80 mila membri nel 2009, ridottisi oggi a 53 mila.
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Secondo uno studio dell’Ufficio delle statistiche sul lavoro statunitense (Bureau of Labor Statistics), gli utenti americani di Facebook trascorrono mediamente cinquanta minuti al giorno sui social media. Solo la Tv batte Facebook (2,8 ore al giorno). La lettura si ferma a 19 minuti, Youtube a 17 (Twitter a un solo, miserabile minuto). Ciò spiega il successo economico della società di Mark Zuckerberg. Più tempo un utente passa su Facebook, più il gestore è in grado di tracciarne le preferenze e di personalizzare le inserzioni sulla sua pagina. Una manna per i pubblicitari, che infatti stanno dirottando i loro investimenti dalla stampa e dalla TV tradizionali (troppo generaliste) in direzione di Facebook.
Il trend è in crescita. Cinquanta minuti al giorno significa che, nel corso di un mese, un utente americano medio trascorre un giorno intero a “scrollare” Facebook. Dodici giorni all’anno. Che diventano tuttavia molti di più nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni. Senza ovviamente contare che al totale delle 24 ore giornaliere andrebbero sottratte quelle dedicate al sonno e al lavoro. Fatelo, e l’incidenza di Facebook sul nostro tempo libero finirà con l’assumere dimensioni inquietanti.
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Gli elettori di Donald Trump sono in prevalenza maschi, bianchi, diplomati e con un reddito inferiore ai 50 mila dollari all’anno. Curiosamente ma non troppo, la stessa fascia di reddito dei sostenitori di Bernie Sanders, il rivale di sinistra di Hillary Clinton.
Trattasi di gruppi sociali che un tempo sarebbero stati definiti “classe media” (o classe lavoratrice, nella versione americana. I veri poveri, negli Stati uniti, dove occorre registrarsi alle liste elettorali per votare, fanno parte della fascia di reddito in questione ma sono di fatto esclusi dal computo dell’elettorato attivo).
Il sistema elettorale americano è stato modellato sulla classe media, e lo stesso vale per le strategie politico-elettorali dei Repubblicani e dei Democratici (definiti, un tempo, partiti pigliatutto). Quello che sta accadendo negli Stati uniti è solo l’antipasto di una crisi della classe media, devastata dalle disuguaglianze sociali, che sta manifestandosi in tutta la sua gravità nella quasi totalità dei paesi occidentali.
L’élite del partito democratico, rappresentata da Hillary Clinton, sopravvive ancora grazie all’apporto delle minoranze etniche; quella del partito repubblicano è stata letteralmente spazzata via dal ciclone Donald Trump.
Il mondo non sarà mai più come era.
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La cosa più divertente di un’eventuale vittoria di Donald Trump è che toccherebbe proprio a lui, al candidato che ha basato gran parte del suo successo sull’ostilità nei confronti degli immigrati, sul voler costruire muri e su tutto il resto della paccottiglia populista, ad aprire le porte della Casa bianca alla prima first lady non americana.
Sua moglie si chiama Melania Knauss, all’anagrafe Knavs (cambiò il suo cognome quando divenne una top-model). E’ nata a Novo Mesto nel 1970, all'epoca in cui la Slovenia era ancora soltanto una regione della ex-Jugoslavia.
E’ cittadina americana dal 2001, dopo il matrimonio con Trump. La cui prima moglie, tra perentesi, era un’altra modella nata nell’ex Cecoslovacchia.
L’amore non conosce limiti né, a quanto pare, frontiere.
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Il Lussemburgo è un piccolo paese di poco più di 500 mila abitanti, incastonato tra la Francia, il Belgio e la Germania. E’ un noto paradiso fiscale, circostanza che misteriosamente non gli impedisce di esprimere un presidente della Commissione europea che per giunta si permette, senza il minimo senso del ridicolo, di dare lezioni di responsabilità fiscale agli altri paesi dell’Unione.
Eppure, nel giro di cinque anni, questo microscopico staterello potrebbe diventare una delle potenze minerarie più importanti del mondo.
A quanto pare, il Gran Ducato ha un ente spaziale che ha appena sottoscritto due accordi con altrettante società aerospaziali: la californiana Deep Space Industries e la Planetary Resources (che annovera tra i soci Larry Page e Eric Schmidt di Google e il fondatore della Virgin, Richard Branson).
L'obiettivo è quello di lanciare entro il 2020 la prima missione mineraria nello spazio profondo, allo scopo di prelevare minerari rari e preziosi da asteroidi e quant’altro per mezzo di navicelle spaziali prive d’equipaggio.
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