giovedì 25 agosto 2016

La maledizione di Tikulti-Ninurta

“Guârdati dal rimuovere la mia stele e il mio nome: la dea Ishtar, la mia signora e padrona, distruggerà il tuo potere, spezzerà le tue armi, sterminerà la tua discendenza e ti consegnerà ai tuoi nemici”.
Non poteva essere più esplicita, la maledizione fatta incidere da Tikulti-Ninurta I, re degli Assiri, nella seconda metà del XIII secolo a.C.
Guai a riderne: le maledizioni degli antichi imperatori, e dei loro dei, vanno prese sul serio. Sempre. Nessuno conosce meglio la caducità delle umane cose di un re che ha perso il proprio regno.
Lo stesso Tikulti-Ninurta lo imparò a sue spese. Aveva osato violare, lui per primo, la santità di Babilonia. La conquistò e ne fece prigionieri il re e perfino il dio Marduk, la cui statua trasportò in catene in Assiria. Fu il suo proprio figlio a fargli pagare il fio di tanto ardire: lo detronizzò, lo gettò in carcere e diede fuoco alla nuova capitale, che Tikulti-Ninurta aveva voluto costruire di fronte a quella vecchia, Assur, sulla sponda opposta del Tigri.
Lo impararono altresì i tedeschi. La stele è a tutt’oggi esposta al Vorderasiatisches Museum, nell’isola dei musei di Berlino. A scoprirla, infatti, alla vigilia della prima guerra mondiale, fu l’archeologo tedesco Walter Andrae.
Il professor Andrae non diede retta a ciò che vi era inciso e imprudentemente la rimosse. Chissà se collegò mai i due episodi: il suo sacrilegio e l’assassinio, in quel di Sarajevo, dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando. Quel che è certo è che pochi anni e milioni di morti dopo, la nefasta profezia di Tikulti-Ninurta si sarebbe avverata: il secondo impero tedesco fu spazzato via, com’era già accaduto al primo e come accadrà anche al terzo, l’effimero “reich” hitleriano.
L’Europa intera, a dire il vero, non solo la Germania, pagò l’ardire dei propri archeologi. Per lo meno, quei paesi dell’Europa che si erano lanciati in imprese imperiali.
Quante tombe furono violate, negli anni gloriosi dell’archeologia coloniale! Mausolei di sconosciuti sovrani, di dimenticati imperatori, di mummificati faraoni, di divinità in terra che i vermi non trovarono affatto diverse dai comuni mortali, né meno digeribili.
Enormi musei furono costruiti per ospitare i resti delle antiche civiltà, con sotterranei ancora più grandi per immagazzinare ciò che non poteva essere esposto.
Che opera immane, fu quella: dissotterrare la storia, leggere nuovamente lingue rimaste mute per millenni, trasportare per terre e per mari le spoglie prigioniere di divinità che furono, un tempo, onnipotenti.
Come Tikulti-Ninurta, anche i sovrani d’Occidente scoprirono ben presto quanta scarogna porti il ratto degli dei altrui. La prima guerra mondiale fu, per i loro imperi, l’inizio della fine.
L’erede dell’imperatrice dell’India oggi fa i soldi con le royalties sulle tazze da tè e le foto di Kate & William vendute ai rotocalchi; l’erede di Carlo V e Filippo II è costretto ad abdicare per storiacce di corna e falsi in bilancio; il re del Portogallo non sa neanche ballar la samba (vedi Mario Panzeri, Il re del Portogallo, 1948); l’ultimo kaiser di cui si ha memoria risponde al nome di Franz Beckenbauer.
Gli imperi che furono vivono di rendita. Riesce loro difficile il gioco che pure un tempo funzionò: garantire i diritti e il benessere dei propri sudditi a discapito del resto del mondo. Perso quest’ultimo, stanno scoprendo il terrore e lo sgomento d’essere diventati marche di confine di altri imperi, vicini e lontani, che la ruota infinita della storia sta riportando all’antica potenza. Provano, di tanto in tanto, a lucidare le cannoniere, a flettere gli atrofizzati muscoli, ma con risultati patetici.
Sono come le repubbliche di Genova e di Venezia negli anni del loro tramonto. Furono signore dei mari, e sono ancora ricche di denari ed expertise, maestre di commercio e brokeraggio; sono ancora difese da efficienti milizie mercenarie; orgogliose sempre delle proprie tradizioni; onuste di gloria e decadenza.
I cavalli di bronzo ancora svettano sulla cattedrale di San Marco: bottino di guerra di una crociata, la quarta, partita per liberare Gerusalemme dai musulmani e vittoriosamente conclusasi col saccheggio della cristiana Bisanzio.
Di fronte a potenze molto più grandi, incapaci di comprendere l’epoca nuova, Genova e Venezia continuano a guerreggiare tra di loro, a mettere in scena la pantomima della propria secolare rivalità. A fare ciò che sono abituate a fare.
Tutto sembra com’era, eppure tutto è cambiato. Il loro regno, il Mediterraneo, non è più il centro del mondo.
Per circa cinque secoli, quel centro divenne l’Atlantico. Non a caso si chiamò NATO, la Santa Alleanza degli antichi imperi d’Occidente: North Atlantic Treaty Organization.
Oggi il centro s’è spostato nuovamente. O, per meglio dire, è scomparso: nessuno sa più bene dove stia. C’è chi lo cerca lungo le coste del Pacifico; chi sulle rive del Mar Caspio; chi lungo il corso del Potomac; a detta di qualcun altro, starebbe niente meno che sulla Sprea (ma quando mai s’è visto, un impero senza esercito?).
“Viviamo in un’epoca di transizione. Come sempre, del resto”, diceva Ennio Flaiano. Se lo poteva permettere, lui. Scriveva dall’alto d’uno scetticismo millenario, in una città che aveva perso il suo impero tanti secoli prima e all’indomani di quella parodia dell’età augustea che fu il fascismo. Se lo poteva permettere, nel mondo ordinato della guerra fredda e del welfare state.
Finché le epoche di transizione arrivano davvero. Finché arriva il momento in cui le carte si scoprono e si capisce chi stava bluffando. Il disastro delle guerre neo-coloniali in Mesopotamia, la nuova presa di Babilonia, e poi i sensi di colpa che hanno spinto i leader occidentali a sostenere le cosiddette primavere arabe (però a singhiozzo: sì la Libia no il Bahrein mezzo e mezzo la Siria): tutto questo non solo ha lasciato dietro di sé morti e macerie, ma ha anche reso più che evidente l’incapacità dei nuovi padroni del mondo di padroneggiare alcunché.
La strategia del mezzo-passo, del tirare la granata e nascondere la mano, del pretendere d’impadronirsi delle risorse naturali di paesi lontani senza però occuparli di fatto, di scimmiottare antiche pratiche coloniali senza truppe sul terreno e funzionari amministrativi e viceré e governatori… decisamente, non c’è nulla di peggio di un re che fa la voce grossa ben sapendo d’andare in giro col culo di fuori.
Le vecchie potenze europee, in un atto di lodevole contrizione, nel secondo dopoguerra vollero farsi pacifiche, coprire l’odore d’iprite e polvere da sparo che ancora ammorbava l’aria. Durò finché sopravvisse l’equilibrio delle potenze. Crollato quest’ultimo, la strategia della pace mostrò subito la sua debolezza. Perfino alle porte di casa sua, in quella che un tempo si chiamava Jugoslavia, dovettero intervenire gli americani per porre termine a una terribile guerra fratricida, mentre i caschi blu olandesi osservavano coi binocoli rovesciati i poveri cristi che avevano mandato al massacro. Affinché l’orrore sembrasse lontano, non lì, a pochi metri dalla loro guarnigione.
Incurante del ridicolo, l’Europa volle spingere i propri confini fino a inglobare le sterminate pianure ucraine, il granaio dell’antico nemico russo. Era solo questione di tempo, prima che il mafio-zar Vladimir Putin, il prode cacciatore di tigri narcotizzate, si pappasse la Crimea in un solo boccone.
Nella Grande Illusione di Jean Renoir, ambientato durante la prima guerra mondiale, il capitano francese de Boldieu viene fatto prigioniero dal parigrado tedesco Von Rauffenstein. Sono entrambi nobili, eredi di casati che nel mestiere delle armi avevano trovato, per secoli, la propria ragion d’essere.
Von Rauffenstein invita a cena il suo prigioniero, e i due amabilmente discettano, come amici di lunga data, dei loro sottoposti: di questi uomini qualunque, figli del popolo, che non possiedono il loro imprinting marziale, che non comprendono il massacro di cui pure sono parte. Che non capiscono la guerra.
Chissà cosa direbbero dell’Europa di oggi, di quest’informe agglomerato di antichi regni che le armi dei loro antenati forgiarono e fecero ricchi? Di questa prospera e decadente potenza, culla di democrazia e insieme di tirannia, che cerca a tentoni un ruolo nell’ordine geopolitico delle cose? I cui leader, discendenti di genie di condottieri e forse per questo incapaci di fare i conti con la dura realtà, si coprono di ridicolo ogni qual volta si atteggiano a napoleoni?
Perché è questo, aujourd’hui, il Vecchio Continente: le sue armi spezzate, il potere in frantumi, una discendenza che è sulla buona strada per sterminarsi da sola, visto il tasso di natalità che da decenni non pareggia il conto dei morti.
Se Tikulti-Ninurta riposa ancora nella sua tomba, starà certamente gongolando.

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