venerdì 9 ottobre 2015

Brutta bestia, la democrazia

La classe politica dei paesi occidentali deve risolvere un problema di non facile soluzione: conciliare le istituzioni democratiche cui deve il potere con la diseguaglianza economica e sociale che le sue scelte politiche stanno riportando a livelli ottocenteschi.
In altri termini, deve trovare il modo di farsi votare da un elettorato cui non ha nulla da offrire in cambio: né la prospettiva di un futuro migliore né la stabilità e la sicurezza degli anni d’oro del secondo dopoguerra. Un’impresa che fa tremar le vene e i polsi.
Perfino Lawrence Summers, l’ex “ministro del tesoro” di Clinton nonché uno dei maggiori responsabili della crisi finanziaria del 2008, sul Financial Times dell’8 ottobre ha sposato la tesi della “fine della crescita” che è al centro del “Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty.
Piketty ritiene che gli elevati tassi annui di crescita che hanno caratterizzato i paesi occidentali dal secondo dopoguerra fino agli anni ‘70 abbiano rappresentato in realtà una straordinaria eccezione storica. Prima e dopo di allora, il tasso medio di crescita di questi stessi paesi si è sempre aggirato intorno all’uno per cento.
Summers cita la teoria ma non il suo più celebre sostenitore, probabilmente perché avrebbe significato discutere delle possibili soluzioni. Piketty propone una sorta di tassazione internazionale sulle multinazionali (mi si perdoni la semplificazione). Summers non sfiora neppure la questione fiscale ma invita gli Stati a indebitarsi per favorire gli investimenti approfittando dei tassi d’interesse che a suo dire rimarranno bassissimi ancora per chissà quanto.
Summers e quelli come lui stanno finalmente cominciando ad ammettere che la Terra è rotonda ma continuano a navigare a zig-zag. Come se fosse piatta.
C’è ovviamente del metodo in questa apparente follia, che fa ricorso a sistemi vagamente keynesiani e di sinistra (niente meno che un ritorno all’interventismo dello Stato) per occultare la principale causa della stagnazione economica nei paesi occidentali: l’ineguale distribuzione del reddito. Guai a discuterne: gli amici della JP Morgan o della Goldman Sachs potrebbero togliere loro il saluto (per non parlare dei lauti cachet).
*****
Il capitalismo funziona solo in presenza di un mercato di sbocco per le merci (industriali o finanziarie che siano). Qualcuno produce e qualcun altro compra. Non importa che i prodotti siano necessari o superflui, che si tratti di farmaci salvavita o di smartphones, delle spille di Adam Smith o di orsacchiotti di peluche, di titoli obbligazionari o di biglietti della lotteria di capodanno.
Il proprietario del capitale e dei mezzi di produzione ottiene un profitto vendendo il suo “qualcosa” a un prezzo maggiore rispetto a quello di costo, garantendo la giusta dose di foraggio anche a chi fa da intermediario tra il produttore e l’acquirente: la ditta di trasporti, il commerciante all’ingrosso e al dettaglio, le agenzie pubblicitarie, perfino le TV commerciali.
Tutte queste persone campano su quella differenza di prezzo che il consumatore finale sarà disposto a pagare. Il problema, oggi, è che la riduzione del potere d’acquisto dei salariati e la precarizzazione del lavoro hanno interrotto questo circuito.
C’è in giro una quantità spaventosa di denaro che nessuno vuole investire in attività produttive, preferendo cercare strumenti finanziari che permettano di continuare a intascare lauti dividendi. Di fatto producendo soldi per mezzo dei soldi.
La prossima bolla finanziaria sarà quella dei titoli di Stato dei paesi emergenti, gli unici che negli ultimi tempi hanno garantito rendimenti decenti. Quella precedente, il credit crunch del 2007/8, fu figlia di un primo tentativo di risposta al problema della contrazione del potere d’acquisto della classe lavoratrice (e media) occidentale.
La disuguaglianza cominciò a crescere negli anni ’80 del secolo scorso. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, i Clinton, i Blair, i Mario Draghi e ovviamente i Summers (solo per fare qualche nome) pensarono di sostituire il welfare state e l’indebitamento pubblico con le carte di credito e i mutui. Ovvero con l’indebitamento privato.
Alla base c’era l’idea di un epocale rimescolamento della distribuzione internazionale del lavoro: trapiantare la produzione industriale nei paesi in via di sviluppo e mantenere in occidente solo le attività a più alto valore aggiunto. La riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori occidentali sarebbe stata compensata dalle facilitazioni sul credito e dall’inondazione di merci a buon mercato provenienti da posti come la Cina, il Brasile, il Vietnam o la Romania. Il muro di Berlino era nel frattempo crollato e i paesi al di qua della cortina di ferro si trovarono inondati da lavoratori qualificati, a basso costo e per giunta bianchi (gli USA, per parte loro, avevano e hanno il loro bacino di manovalanza al di là del Rio Bravo). L’Europa dell’Est era tornata finalmente a essere ciò che era stata prima del comunismo: esportatrice netta di manodopera (come, del resto, il Mezzogiorno d’Italia).
Per un po’ sembrò funzionare. Tutti erano felici: gli amministratori delegati, gli azionisti, i politici e perfino la classe media che li votava. Certo, alcuni paesi alla periferia dell’Occidente faticavano un po’ a stare dietro alle “locomotive” dello sviluppo. L’Italia, che aveva accumulato uno spaventoso debito pubblico negli anni della Milano da bere ed era stata addirittura cacciata dal sistema monetario europeo perché insisteva a svalutare la lira per ripagare i creditori internazionali con carta straccia, vide scomparire di colpo un’intera classe politica e si affidò all’unto dal Signore, ai fascisti usciti dalle fogne e ai figli e ai nipoti degli immigrati meridionali che un giorno scoprirono d’essere niente meno che discendenti dei celti.
I greci assunsero un manipolo di consulenti della Goldman Sachs e si fecero truccare i conti pubblici. Gli spagnoli costruirono intere città per i pensionati inglesi e tedeschi con i soldi delle proprie banche, gettando le premesse per una gigantesca bolla immobiliare. L’Irlanda divenne di fatto un paradiso fiscale, e i tanti miliardari che usufruirono dei suoi servizi ne furono talmente contenti da omaggiarla del titolo di “tigre celtica”.
Le malefatte e l’arte d’arrangiarsi dei paesi più poveri avrebbero già dovuto fornire indizi sufficienti. Perché si trattò, oggi lo sappiamo, di un delirio collettivo di proporzioni gigantesche.
La classe politica dei paesi occidentali che contano è riuscita, per un po’, a sopravvivere alle proprie malefatte. Non ce l’avrebbe mai fatta, senza l’aiuto interessato dei mezzi d’informazione, quasi tutti di proprietà degli stessi gruppi economico-finanziari che avrebbero tutto da perdere, se i cittadini fossero debitamente informati.
*****
La democrazia, in Europa e negli Stati uniti, ha una plurisecolare tradizione. Non è facile sbarazzarsene. Non potendo affrontare l’ostacolo direttamente, occorre aggirarlo. I paesi in cui le classi dirigenti sono più organiche e consapevoli hanno da tempo trovato una soluzione.
Negli Stati uniti devi registrarti per andare a votare, e i poveri non hanno né voglia né tempo di farlo. In Francia si vota col doppio turno: lasciano sfogare i trotzkisti e i lepenisti al primo turno, poi tutto torna comme il faut al ballottaggio. In Gran Bretagna vige il sistema uninominale: contano i collegi, non la percentuale nazionale dei voti. In Germania, le differenze tra i democristiani e i socialdemocratici sono talmente minime che basta avere un voto in più dei rivali e subito una “grosse koalition” risolve ogni problema di governabilità. E’ quello che Renzi sta tentando di fare in Italia: un sistema che consenta di vincere le elezioni senza averlo fatto, puntando cinicamente sulla bassa affluenza al voto (Renzi, in questo, è davvero il Tony Blair italiano. Questa tattica elettorale, l’ex primo ministro inglese l’aveva addirittura teorizzata).
Il problema è che proprio questi sistemi elettorali cominciano a mostrare le prime crepe. La democrazia è un fiume carsico. Pensi di essere riuscito a tenerla sotto terra, ma l’acqua continua a scorrere anche laggiù.
C’è stata un’altra epoca in cui l’Occidente ha visto convivere disuguaglianze sociali simili a quelle di oggi e sistemi elettorali a suffragio universale. Erano i primi del Novecento. Per trovare sbocchi alle proprie merci, i paesi ricchi dell’Occidente s’imbarcarono in avventure coloniali. Il risultato fu la prima guerra mondiale, le cui conseguenze gettarono i semi del fascismo e del nazismo e provocarono la seconda.
Democrazia e disuguaglianza non possono convivere. I blairiani, in Gran Bretagna, s’erano inventati un sistema per ridurre il potere dei sindacati alle primarie del partito laburista. Decisero che bastasse pagare tre sterline per votare, anche senza essere iscritti al partito. Il risultato del loro colpo di genio è stato l’elezione del loro arci nemico Jeremy Corbyn. Per candidarsi alle primarie del partito laburista occorrono almeno 35 firme di parlamentari in carica. Corbyn non le aveva. Fino a quando, all’ultimo minuto, un paio di parlamentari di altre correnti decise di firmare pur sottolineando che non avrebbe mai votato per lui. “Lo facciamo – dissero – perché è giusto che ci sia un dibattito”. Dopo di che, la regola inventata dai blairiani per impedire ai Corbyn di vincere le primarie si è rivolta loro contro. Centinaia di migliaia di elettori britannici hanno versato le tre sterline e hanno votato per Corbyn.
Negli Stati uniti, Hillary Clinton ha criticato l’accordo di libero scambio con i paesi del Pacifico appena firmato da Obama e dagli altri governi delle nazioni interessate. Un fatto davvero curioso, dal momento che la Clinton è stata il "ministro degli esteri" dell’amministrazione Obama e ha personalmente condotto buona parte delle trattative.
Ha dovuto farlo perché il suo rivale alle primarie del partito democratico, il socialista Bernie Sanders (una sorta di Jeremy Corbyn americano), la sta seriamente insidiando. Negli ultimi tre mesi, la Clinton ha raccolto 28 milioni di dollari di donazioni elettorali, provenienti per lo più da multimilionari.
Appena 2 milioni di dollari in più del suo rivale. Con la differenza che quest’ultimo ha ricevuto donazioni dall’importo medio di 25 dollari. I democratici della classe media stanno sostenendo il socialista Bernie Sanders, che da sempre si oppone al trattato di libero scambio con i paesi del Pacifico. Ecco spiegato l’improvviso voltafaccia di Hillary Clinton, che con una mano firma il trattato voluto dai suoi finanziatori e con l’altra lo critica per non alienarsi il sostegno degli elettori democratici.
*****
Piccole crepe si stanno aprendo sul monolite del “pensiero unico”. Dimenticatevi Siryza, Podemos o i Cinque Stelle (tra parentesi: quello grillino è un partito piccoloborghese con molte venature neoliberiste, al contrario di Tsipras e Podemos). Non è dalla periferia dell’impero che il sistema di potere dominante potrà venire minacciato.
E’ nei paesi che contano che faranno di tutto per tappare queste crepe. E per tenere a bada la democrazia.