mercoledì 1 gennaio 2014

Perché non possiamo non dirci capitalisti

Il testo base dell’economia di mercato, la sua Bibbia, risale al 1786. Fu scritto in Gran Bretagna da Joseph Townsend, nel pieno della cosiddetta prima rivoluzione industriale, appena diciotto anni dopo l’invenzione della macchina a vapore. Il titolo: “A Dissertation on the Poor Laws”, una dissertazione sulle leggi per i poveri.
Le Poor Laws erano, all’epoca, l’equivalente dell’odierno welfare state e imponevano alle parrocchie il sostentamento dei poveri.
Townsend scrisse che l’assistenza ai poveri rappresentava un problema per lo sviluppo economico delle industrie e delle campagne. Per lui, medico e scienziato, le diseguaglianze sociali non erano altro che una legge di natura che i governi avrebbero dovuto lasciare a loro stesse.
Proprio per questo sostenne, con una franchezza oggi inimmaginabile, che l’unico modo di far lavorare i poveri è metterli di fronte ad una e ad una sola alternativa: la morte per fame.
O lavori o muori. Le leggi assistenziali, diceva, ostacolano i datori di lavoro: perché un lavoratore dovrebbe impegnarsi a far bene il proprio lavoro se sa che in caso di licenziamento la parrocchia si occuperà di lui e della sua famiglia?
Ma le leggi assistenziali ostacolano anche i lavoratori onesti, quelli che si sbattono dalla mattina alla sera per mantenere i figli e non contestato i propri datori di lavoro. Se capita loro d’aver bisogno d’assistenza, ecco che scoprono che i pigri e gli sfaticati hanno già intascato tutti i sussidi disponibili.
Non sono io a dire che la “Dissertation on the Poor Laws” è il testo base del capitalismo. Lo scrisse Karl Polanyi, nel lontano 1944. Malgrado la terribile e sgrammaticata traduzione italiana, il suo “La grande trasformazione” (Einaudi) è un libro che tutti dovrebbero leggere.
M’è tornato in mente l’altro giorno, leggendo su Repubblica i risultati dell’ultimo sondaggio Demos curato da Ilvo Diamanti. Gli italiani, a quanto pare, preferiscono pagare meno tasse piuttosto che salvaguardare i servizi pubblici.
Appena otto fa, nel 2005, il 54% degli italiani riteneva che potenziare i servizi pubblici fosse più importante che ridurre le tasse. Oggi il 70% preferisce quest’ultima opzione.
Non è un fenomeno solo italiano. L’anno scorso, in Gran Bretagna, l’istituto Ipsos MORI scoprì che le giovani generazioni britanniche non credono più nel welfare state. Alla domanda: “la creazione del welfare state è uno dei risultati di cui la Gran Bretagna dovrebbe essere più orgogliosa?”, solo il 20% dei nati dopo il 1980 rispose di sì. Tra i nati prima del 1945, la percentuale schizzava al 70%.
Alla domanda: “il governo dovrebbe spendere di più nell’assistenza per i poveri, anche se ciò comporta aumentare le tasse?”, mentre il 40% per cento dei nati prima del 1945 ancora rispondeva di sì, tra i giovani la percentuale si riduceva al 20%.
Sono numeri terribili. Le giovani generazioni britanniche, abituate a lavori flessibili e all’insicurezza permanente, non conoscono altro. Lo stesso vale, con una decina d’anni di ritardo, per le giovani generazioni italiane.
E’ la guerra di tutti contro tutti, la sopravvivenza del più forte, la legge della giungla.
Lo Stato è un nemico, non più l’unico argine allo strapotere delle leggi del mercato. Decenni di conquiste sociali spazzate vie da una crisi che il capitalismo finanziario ha provocato senza pagarne le conseguenze. Anzi, scaricando la colpa sugli Stati.
Miliardari senza vergogna che chiedono ad alta voce altri tagli allo stato sociale, col consenso plaudente e ammirato delle loro vittime.
O lavori o muori. Caso mai non ve ne foste accorti, il capitalismo ha trionfato.

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