giovedì 9 gennaio 2014

Economisti. Se li conosci li eviti

Io d’economia non capisco niente, ma mi consola sapere che sono in buona compagnia. Gli economisti, per esempio. Pensate che loro ne capiscano?
Non è che siano degli idioti o degli incapaci. Alcuni sono perfino bravi. C’è solo che quando penso alla maggioranza degli economisti mi vengono in mente quei poveri giornalisti al seguito delle truppe americane in Iraq. Ve li ricordate? Li chiamavano “embedded”. Letteralmente, che dormono nello stesso letto (nel letto dei marines, nel caso in questione).
Mettetevi nei loro panni. Siete in un paese straniero e c’è una guerra. Dovete scrivere un articolo sul caporale dei marines che vi sta tirando fuori da un campo minato. Non so voi, ma piuttosto che scegliere a testa o croce dove mettere i piedi, io scriverei che ‘sto caporale mi pare John Wayne redivivo. Potete scommetterci che lo farei.
Adesso facciamo l’esempio di un economista che voglia diventare professore universitario. Ma un professore come si deve, intendo, non a Camerino o a Enna. Una cosa seria, tipo Harvard o Cambridge. Voi che fareste? Fareste una tesi di laurea sulle malefatte della finanza? Ma figurati!
Forse, se scrivete una roba assolutamente incomprensibile sulla geo-antropologia dell’ingiustizia sociale, forse e se vi va bene vi daranno una piccola cattedra in qualche minuscolo ateneo francese. Su al Nord, dove piove pure quando c’è il sole.
Ma Harvard o il MIT, beh, scordateveli.
Alberto Alesina, per esempio. Lui alla Harvard ci insegna, ed è un’autorità internazionale tra gli anti-keynesiani e i fondamentalisti dell’austerità. E’ sua (e di Silvia Ardagna) la teoria economica della cosiddetta “austerità espansiva”, secondo cui i tagli alla spesa pubblica e il consolidamento fiscale fanno crescere l’economia. Secondo voi ci ha azzeccato?
C’è un’altra famosa coppia d’economisti che sostiene la stessa tesi. Si chiamano Reinhart e Rogoff, e per anni sono stati citati ad esempio dai falchi del liberismo. Poi s’è scoperto che nei loro calcoli, fatti con l’Excel, erano contenuti dei macroscopici errori. Ma che importa? Il loro dovere l’avevano fatto: fornire una foglia di fico economico-scientifica a politiche economiche che erano dettate solamente dall’interesse dell’establishment finanziario di spartirsi le risorse pubbliche e di fare la cresta ai lavoratori.
Nel tempo libero, Alberto Alesina scrive puntuti editoriali per il Corriere della sera. Tipo quello pubblicato lo scorso 5 novembre. L’ho salvato sul mio desktop, perché trovo sia una delle cose più fantasmagoriche, strampalate e involontariamente divertenti che siano mai state scritte.
S’intitola “Forza vendete (e giù le tasse)”. Da economista come si deve l’articolo è farcito di numeri. Il debito pubblico italiano, dice Alesina, è al 133% del prodotto interno lordo, e fin qui siamo tutti d’accordo. Ogni anno l’Italia paga, di soli interessi sul debito, 85 miliardi di euro, pari al 5,4% del PIL. E pure qui nulla quaestio.
Il bello arriva al capitolo soluzioni. O alziamo le tasse, sostiene Alesina, oppure ci vendiamo tutto. Tutto, ma proprio tutto: le quote azionarie che lo Stato possiede in Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Fincantieri, Poste Italiane, Sace, ST Microelectronics e Cassa depositi e prestiti. Se ne potrebbero ricavare “60 miliardi di euro”, più altri 36 se ci mettiamo pure le Ferrovie.
Vendendo le aziende locali potremmo intascare ulteriori 30 miliardi, e addirittura 300 miliardi, sissignore trecento seguito da nove zeri, se ci sbarazziamo di tutti gli immobili (se nel calcolo siano compresi anche i tavoli e le sedie Alesina non lo dice, e per favore non fatelo avvicinare agli Uffizi e ai quadri di Raffaello!).
In totale, lo Stato italiano potrebbe raggranellare una bella sommetta, pari al 21% del PIL (il 6% dalla vendita delle quote azionarie, il 15% da quella degli immobili).
Ora, dico io, ma come fai a dire seriamente una cosa del genere? Perché Alesina è serissimo, altezzoso perfino. L’avete mai visto in fotografia? Ha una faccia da “come-ti-permetti-di-contraddirmi” e una chioma da direttore d’orchestra. Sara per questo che comanda i numeri a bacchetta.
Adora le addizioni ma avversa le sottrazioni. Somma quanto lo Stato guadagnerebbe vendendo tutte le sue quote azionarie ma non sottrae i dividendi che perderebbe dalla cessione (per esempio) dell’ENI.
Somma i guadagni delle vendite immobiliari ma, non specificando di quali immobili stia parlando, sorge il dubbio che non sottragga quanto bisognerà poi spendere in affitti per scuole, ospedali, uffici.
Ma anche prendendo per buone le sue cifre, vi pare serio che lo Stato debba sbarazzarsi di tutta la sua argenteria per pagare al massimo tre-quattro anni d’interessi sul debito pubblico? La sorte capitale non sarebbe neppure intaccata (ah già, a quella provvederebbe l’austerità espansiva. Campa cavallo!).
E poi, porcaccia miseria! C’era bisogno di una cattedra alla Harvard University per sapere che puoi pagare i debiti vendendoti la casa? L’usciere di un qualsiasi monte dei pegni sarebbe stato più che sufficiente!

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