giovedì 11 settembre 2008

Italkali senza pretendenti


Pubblicato sul Sole 24 Ore Sud di mercoledì 10 settembre.

La Regione siciliana non riesce a liberarsi del 51% dell’Italkali s.pa. posseduto dall’Ente Minerario Siciliano in liquidazione. Un primo bando di vendita, nel 2005, era naufragato nelle aule di tribunale, costringendo la Regione ad annullare la cessione delle quote pubbliche agli austriaci della Salinen.
Ad aprile, il secondo bando di vendita è andato deserto, malgrado alcune società (siciliane e straniere) sembrassero inizialmente interessate. “Probabilmente – dice il commissario liquidatore dell’EMS, Rosalba Alessi – è dipeso dal fatto che il bilancio 2007 presenta delle perdite. Per questo motivo ho suggerito all’assessorato all’Industria di aspettare qualche mese prima di procedere ad un nuovo bando, in attesa di capire se quest’anno ci saranno i miglioramenti che al momento sembrano esserci”. Non tutti sono d’accordo con Alba Alessi. Ad esempio, Antonio Vitellaro, amministratore vicario dell’Italkali (il cui Cda è nominato dai soci privati) sostiene che il vero problema era la bozza di contratto sottoposta ai potenziali acquirenti.
Il bilancio approvato a fine maggio, ad ogni modo, non è certo stato tra i migliori. Specializzata nella coltivazione e commercializzazione del salgemma, l’Italkali ha visto crollare la produzione da 1.047.179 tonnellate di tout venant del 2006 a poco più di 500 mila tonnellate (il tout venant è il minerale per come esce dal sottosuolo, prima dei processi di trasformazione). Alla base del calo, il clima eccessivamente mite: poca neve sia in Nord Italia che nell’Europa centrale e settentrionale, tradizionali mercati di sbocco per il sale antigelo (quello che si sparge su strade e autostrade). Una crisi che, è bene precisarlo, non ha colpito soltanto l’Italkali ma l’intero settore a livello internazionale. Non a caso, tornando all’Italkali, è stata la miniera di Realmonte in provincia di Agrigento a subire le conseguenze più pesanti. Gli altri due siti estrattivi siciliani, Petralia (in provincia di Palermo) e Racalmuto (sempre in provincia di Agrigento), danno un sale molto puro, destinato a scopi alimentari e industriali, e non hanno subito apprezzabili conseguenze negative. La miniera di Realmonte, il cui sale meno puro può essere usato solo come antigelo, è passata invece dalle quasi 600 mila tonnellate del 2006 a meno di 80 mila nel 2007. Quest’anno le cose vanno un po’ meglio. I dati del primo semestre 2008 dicono che la produzione è pari a quella dell’anno scorso a Petralia, praticamente raddoppiata a Racalmuto e in considerevole crescita anche a Realmonte, dove però l’estrazione del salgemma è stata frenata dalla necessità di esaurire le scorte dell’anno precedente. E dire che proprio nel sottosuolo di Realmonte riposa una buona parte del futuro dell’Italkali. E’ qui che si trova un consistente giacimento di kainite, per i chimici un sale doppio di potassio e magnesio commisto a salgemma. Nel 2002 uno studio del Consiglio Nazionale delle Ricerche valutò la consistenza del giacimento, stimandone una vita di circa 40 anni. Attraverso un processo industriale, dalla kainite si può ricavare solfato di potassio da utilizzare come fertilizzante in agricoltura. “Potrebbe consentirci – dice Antonio Vitellaro – di inserirci nei mercati internazionali in maniera remunerativa. Se solo ce lo lasciassero fare”.
Al momento comunque l’Italkali ha 263 dipendenti, 176 dei quali in Sicilia (nell’indotto lavorano altre 230 persone, tra addetti alla manutenzione e trasportatori).
Pochi sanno che i primi a comprendere la possibilità di ottenere solfato di potassio dalla kainite furono gli italiani. Il relativo procedimento industriale fu infatti brevettato dalla Montecatini negli anni ’60. Il primo stabilimento ad applicarlo fu quello di Campofranco in provincia di Caltanissetta, dove la kainite arrivava tramite teleferica dalla miniera di S. Cataldo. Una storia conclusasi nel 1992, quando la Sicilia finì fuori legge nello smaltimento dei rifiuti potassici: la Regione aveva previsto una condotta per consentire il deflusso a mare degli scarti di lavorazione (la cosiddetta salamoia), rimasta però sulla carta. Doveva sfociare dalle parti di Sciacca dopo aver attraversato il territorio di due province.
Il nuovo stabilimento Italkali per la lavorazione della kainite è previsto a Porto Empedocle, in un’area di 220 mila metri quadrati all’interno dell’area industriale (esattamente alle spalle del rigassificatore progettato dalla ENEL Power). A regime dovrebbe creare 300 nuovi posti di lavoro senza considerare l’indotto. Se ne parla dal dicembre del 2003, quando l’Italkali ha chiesto all’ASI di Agrigento l’assegnazione dell’area. Pochi giorni e l’ASI risponde di non averne la disponibilità. Nel marzo 2004 l’azienda ha presentato una proposta di contratto di programma e a novembre ha chiesto nuovamente l’area, questa volta alla Capitaneria di Porto. A dicembre la risposta: l’istanza potrà essere valutata solo dopo la riconsegna delle aree da parte dell’ASI. Si tratta in effetti di uno specchio di mare che l’ASI deve ricolmare e attrezzare. Peccato che i lavori, iniziati oltre dieci anni fa, non si siano ancora conclusi. Di conseguenza l’area rimane in una sorta di limbo burocratico: “prestata” all’ASI, è però di competenza della Capitaneria. Così, nel marzo 2005 l’Italkali prova a tagliare la testa al toro e fa richiesta a tutti e due gli enti, ricevendone però altrettanti rifiuti. Tanto che il CIPE, a settembre, respinge la domanda di accesso ai contratti di programma perché l’Italkali non ha trasmesso la “dichiarazione di disponibilità del suolo”. Per Stefano Catuara, presidente dell’ASI di Agrigento, il vero problema è che “negli anni, la vicenda non è stata mai affrontata”. L’area richiesta dell’Italkali, dice, non tiene conto del piano ASI né delle istanze presentate da altri gruppi industriali, anche agrigentini: “L’unico modo per risolvere il problema – spiega - sarebbe un protocollo d’intesa tra l’ASI, la Capitaneria e le imprese interessate per rendere compatibili i diversi insediamenti”.

Lo scempio delle antiche terme



Le foto che vedete testimoniano uno scempio. Sono state scattate dentro e fuori lo stabilimento delle Antiche Terme Selinuntine, di proprietà della Regione siciliana tramite l’Azienda Autonoma delle Terme e attualmente in concessione alla Terme di Sciacca s.p.a. Si raggiunge dalla via Figuli, alla fine della scala che a pochi metri dal viale delle Terme conduce in contrada Muciare dopo avere attraversato il torrente Bagni. Era qui che, un tempo, si trovava la fonte della cosiddetta Acqua Santa, nota da secoli per le sue virtù terapeutiche. Lo stabilimento venne restaurato nel 1984-85, all’epoca in cui l’Azienda delle Terme era diretta da Pasquale Mannino. Fu il geologo Forlani a ritrovare la fonte dell’Acqua Santa, che era andata perduta in seguito al terremoto del 1968. Peccato si fosse ben presto scoperto che la celebrata acqua aveva perso la sua santità: i residenti delle contrade Isabella, S. Antonio e Sovareto, a furia di scaricare i reflui dove capitava, l’avevano inquinata. Coliformi fecali: questo dissero le analisi.

Ad entrarci oggi si viene assaliti dallo sconforto. Innanzi tutto perché farlo è semplicissimo. I due portoni d’ingresso sono entrambi spalancati, e perfino il cancello della recinzione è chiuso solo per finta: la catena è arrotolata attorno alle sbarre ma il lucchetto (come avete visto) è incredibilmente aperto. Basta spingere e il gioco è fatto (è così che ce ne siamo accorti: appoggiandoci per sbaglio).
Da un pozzetto l'acqua sulfurea continua a scorrere, copiosa. Disperata, in mancanza di un uso più proficuo, si getta nel torrente Bagni.
Nella sala d’ingresso, accatastati come viene, diversi fusti. Sono pieni, ho provato a sollevarli. Abbandonati come capita, malgrado le allarmanti etichette: “corrosivo”, “provoca ustioni”. Tutto incustodito, da autentici irresponsabili.


Il consiglio d’amministrazione della società per azioni cui la Regione ha delittuosamente affidato le terme di Sciacca lamenta di non avere soldi per gestire adeguatamente le strutture e geli impianti. Sarà vero (anzi lo è senz’altro). Tuttavia, a guardare queste foto, si capisce che la situazione è molto peggiore. Non sono solo i soldi a mancare.


Manca l’interesse, la cura, l’amore per il patrimonio termale. La sensazione è che da queste parti, a meno di 100 metri dagli uffici dirigenziali, siano anni che nessuno scende a controllare. Se i consiglieri non hanno i soldi per la benzina, possono andarci a piedi. Se non hanno i soldi per un lucchetto nuovo, basta che mi telefonino: in qualche cassetto, ne sono quasi sicuro, dovrei averne qualcuno.

mercoledì 10 settembre 2008

Chi ha paura di Mebrahtu?

Ma i saccensi sono razzisti? Non vi nascondo che l’ostilità nei confronti del centro d’accoglienza per immigrati di contrada Isabella mi ha stupito non poco. Sciacca ha una lunga tradizione di tolleranza e accoglienza, che fa a pugni con l’isterismo collettivo che sembra averla colpita. Io però rimango convinto che i saccensi non siano diventati di colpo intolleranti. Siamo una città di mare, da sempre più evoluta rispetto al contesto agrigentino, e non riesco ad accettare che ciò che è possibile a Montevago diventi impossibile da noi (come ha lodevolmente fatto notare il settimanale ControVoce).
Di sicuro ha contribuito la caccia all’extracomunitario che sembra essere l’unica politica sociale del nuovo governo, e il bombardamento mediatico che l’alimenta. I saccensi non hanno paura dei ragazzi e delle ragazze di contrada Isabella, ma sono terrorizzati da quello che la televisione racconta loro. Tuttavia m’illudo di conoscere ancora i miei concittadini. Diciamo che mi piace illudermi. Sono convinto che se conoscessero gli ospiti del centro, anziché osservarli attraverso lo specchio deformante dello schermo televisivo, se li conoscessero personalmente voglio dire, forse il loro atteggiamento cambierebbe. Io l’ho fatto. Un giorno, col mio amico pittore Franco Gulino, sono andato a parlare con alcuni di questi ragazzi. Ho ascoltato le loro storie. E alla fine ho pensato: se i miei amici saccensi li conoscessero, se li ascoltassero parlare, se sapessero i drammi da cui questi ragazzi di 17, 20, 24 anni sono scappati, sono sicuro che li inviterebbero a cena. Che organizzerebbero uno schiticchio insieme a loro. Che non ne avrebbero più paura.
Ho parlato con un ragazzo del Niger. Un tuareg per parte di padre. Avete presente i tuareg del deserto? (il Niger è quasi tutto un deserto) Erano i protagonisti di tanti film e romanzi d’avventura, e fumetti, di quando eravamo bambini. Ebbene, Abdulraman è un tuareg. Ha 17 anni ed è nato e cresciuto in un paese desertico preda da anni di una intermittente guerra civile. A volte si spara a volte si sta in pace. Lui ha perso la madre quand’era bambino, poi il padre in guerra, gli era rimasto un fratello che per un po’ l’ha aiutato, poi anche il fratello ha subito le conseguenze dell’ennesima recrudescenza di guerra civile. Ci ha rimesso una gamba, e con l’unica che gli è rimasta stava davanti alle chiese a chiedere l’elemosina. Abdulraman s’è trovato di fronte due alternative: imbracciare un fucile e arruolarsi in una qualche milizia oppure tentare la fortuna in Europa. E’ quello che ha fatto. Voi, al suo posto, come vi sareste comportati?
Poi ho conosciuto un ragazzone nigeriano (Nigeria, stavolta, non Niger). Alto e grosso ma con una faccia che tradisce i suoi 17 anni. Con la medicina tradizionale avevano provato a guarire una malattia cutanea (non sono un medico, ma sembrava una cosa tipo psoriasi). Gli stregoni della sua tribù s’erano convinti che la malattia fosse l’effetto di un incantesimo lanciatogli dalla tribù rivale dei Paga. Risultato: una gamba gonfia come un tronco d’albero e tante cicatrici sullo stomaco (tagli fatti con un coltello). Al Civico di Palermo gliel’hanno curata in tre giorni, a casa sua rischiava di perdere la gamba. Alla fine, per non finire vittima degli scontri tribali, è fuggito in Libia. Qui, per sei mesi, ha fatto il muratore per guadagnarsi i soldi con cui pagare il viaggio in Italia, ma come tanti altri s’è ritrovato truffato: gli avevano garantito uno stipendio, gli hanno dato due spiccioli. Parla solo inglese, appena arrivato in Italia ha provato a caricare il cellulare e chissà che tasto ha premuto. Adesso ce l’ha a morte con la Wind, che gli ha fregato un’intera ricarica.
Poi c’è Mebrahtu. Avete presente Harry Belafonte? Beh, più o meno è fatto come lui. Viene dall’Eritrea, parla un ottimo inglese. Colto, raffinato, elegante, ha un garbo e un’educazione fuori dal comune. Non avesse la pelle nera tante mamme di Sciacca parteciperebbero ad un’asta pur di averlo come genero. Tuttavia il suo problema, almeno in Eritrea, non era il colore della pelle. Ha un “difetto”, Mebrahtu: è un cristiano pentecostale. Pare che la cosa, al paese suo, non sia presa bene. Là sei accettato solo se cattolico, musulmano oppure ortodosso, le tre religioni ufficiali. Guai però ad essere pentecostali. Può capitarvi quello che è successo a Mebrahtu. Un giorno se ne stava con un gruppo di amici a leggere la Bibbia. Di nascosto. Una retata della polizia e tutti in galera. Lui c’è rimasto sei mesi. Pure la famiglia l’ha ripudiato. Esce dal carcere e gli tocca il servizio militare. Una cosa seria, da quelle parti, dove le guerre sono all’ordine del giorno. Anche qui viene beccato (terribile delitto) a leggere la sua Bibbia da pentecostale. Per punizione, lo sbattono sotto al sole: fermo lì, immobile, guai a te se ti muovi. Il sole dell’Eritrea, roba da morire d’insolazione. Lì prende la sua decisione. “Qui mi ammazzano” pensa, e varca il confine con il Sudan. Per qualche mese lavora a Khartoum, la capitale sudanese. Fa il bell boy in un albergo, trasporta le valigie. L’ho già detto: parla un ottimo inglese, con accento di Cambridge. La polizia però lo taglieggia. Lui e gli altri irregolari. O pagate il pizzo o vi sbattiamo in galera perché non avete documenti. Mebrahtu deve fuggire anche dal Sudan. La nuova destinazione è la civile Europa. Va in Libia e da lì arriva a Lampedusa. Infine in contrada Isabella. Dove scopre che proprio di lui, così garbato ed elegante, la gente ha paura. Ma davvero noi saccensi abbiamo paura di Mebrahtu?

H2 oooooooooohhhhh!

Leggo da Agrigento Notizie del 6 agosto, a firma di Giuseppe Recca: “Il presidente della Girgenti Acque, Giuseppe Giuffrida […] ha ribadito di avere trovato una situazione catastrofica a Sciacca e che la normalità si può raggiungere lentamente. Ed ha rilevato che a Sciacca non c'è una mappa della rete idrica e ogni intervento di riparazione presenta grosse difficoltà”.
Il tipo, Giuffrida, aveva appena discusso con l’amministrazione comunale di Sciacca della situazione di contrada San Marco, senz’acqua ormai da tempo immemorabile. E s’è giustificato così. Roba da far cadere le braccia. Il tipo, questa è la cosa drammatica, forse manco ha capito la gravità delle cose che ha detto.
Ha parlato da politico, sembrava un sindaco che s’è appena insediato e si giustifica con gli elettori scaricando le colpe sul predecessore e sui disastri che gli ha lasciato. Peccato che mister Giuffrida non sia né un sindaco né tanto meno un politico. Il tipo è l’amministratore di una società per azioni che ha partecipato ad un bando di gara pubblico per l’aggiudicazione di un servizio.
Questo significa tre cose: 1) che aveva il dovere di conoscere la situazione della rete idrica di Sciacca prima di partecipare alla gara e più ancora prima di mettere la sua firmetta in calce al contratto; 2) che se davvero non conosceva le reali condizioni della rete idrica saccense, non si capisce in base a quali elementi abbia presentato la sua offerta e il conseguente piano industriale; 3) che l’errore commesso dall’allora presidente della Provincia di Agrigento Enzo Fontana, avallato dai sindaci che hanno votato a favore (compreso il nostro compaesano Mario Turturici) si sta rivelando drammatico. Vi ricordate? Siccome al primo bando non aveva partecipato nessuno, si decise di ridurre a soli 5 milioni di euro la garanzie finanziarie necessarie per aggiudicarsi il servizio. Non ci voleva molto a capire che la Girgenti Acque, già in partenza, non avrebbe avuto i soldi per affrontare le tante emergenze e le altrettante “situazioni catastrofiche” delle reti idriche della nostra assetata provincia. A maggior ragione se il suo presidente, il tipo là, manco aveva idea di cosa si sarebbe trovato di fronte.
La verità è che la Girgenti Acque è stata costituita e s’è aggiudicata il servizio per mettere le mani sui finanziamenti comunitari che arriveranno. Di suo non sta apportando alcuna competenza in più rispetto all’EAS (anzi, sembra perfino più scarsa, a giudicare da come si sta coprendo di ridicolo a San Marco) né tanto meno le superiori capacità manageriali che i privati dicono di avere rispetto al pubblico. Vi ricordate Mario Turturici: la gestione dev’essere affidata ai privati perché sono più efficienti del pubblico. Si sta vedendo, eccome se si sta vedendo.